Serse. L’intervista

Serse al Museo d'arte Moderna e Contemporanea di Saint-Etienne (foto Manuela De Leonardis)

Saint-Étienne (Francia), marzo 2015. Sembrano fotografie, ma non lo sono. Il corto circuito è in atto, osservando da lontano (e poi da vicino) opere come Riflessi (2009), A fior d’acqua (Nero di China), 2005, Notti Bianche (2014), Diamante (2007) nelle sale al piano terra del MAMC Musée d’art moderne et contemporain di Saint-Étienne, dove è in corso la mostra personale di Serse, curata da Lóránd Hegyi ed inserita, in coincidenza con l’inaugurazione della Biennale del Design, nell’impegnativa programmazione primaverile che include le esposizioni di Lee Bul, Jonathan Lasker, Yves Bresson e Massimiliano Camellini e dei giovani designer Hye-Yeon Park e Seung-Yong Song (fino al 17 maggio). Un percorso che si snoda attraverso le tappe più significative della carriera dell’artista italiano (Fabrizio Roma, detto Serse, è nato a San Polo del Piave nel 1952, vive e lavora a Trieste), che dagli anni ’80 sviluppa il suo linguaggio artistico attraverso l’uso straordinario del disegno a grafite su carta.

“Nella scala di durezza dei materiali alla grafite viene conferito un valore tra i più bassi; la sua composizione è il carbonio che per le sue capacità allotropiche trasforma le sue caratteristiche fisiche nel più alto grado di durezza, nella più preziosa e nobile delle forme: il diamante.” – scrive lo stesso Serse nel catalogo Paysage Analogue. Dessins 1994-2014, realizzato in collaborazione con Galleria Continua San Gimignano-Beijing-Les Moulins – “Dal punto di vista strettamente geologico la grafite e il diamante costituiscono una sorta di alfa e omega, non solo nei valori di durezza, ma anche sulla scala del colore: nero profondo per la grafite, trasparenza incolore per il diamante; ovvero ombra e luce.”

Partiamo dalla tecnica: per i tuoi disegni a grafite usi la carta, che poi incolli su una superficie di alluminio…

“Affrontiamo subito alcune questioni che sono alla base del mio lavoro. La prima è la natura – lo statuto – del disegno che attraversa i secoli senza una precisa connotazione linguistica. Possiamo vedere un disegno, che sia di Pontormo, Leonardo o di un artista contemporaneo, e questa temporalità svanisce. Il disegno è, difatti, fuori dal tempo, come lo sono le idee. Questa è la prima questione, la seconda è che noi – o almeno io, come artista italiano – siamo figli del Rinascimento, ci appartiene, dunque, questa visione del quadro come “fenestra” aperta sul mondo, come l’aveva definito Leon Battista Alberti. Ed il quadro come trascrizione dell’elemento ideale, con un vetro laddove l’artista trascrive tutti gli eventi della natura, rimane ancora il nostro marchio profondo. Del resto anche molti artisti dell’arte povera sono legati alla tradizione, come Kounellis che continua a definirsi un pittore, o Paolini con le sue citazioni. Ma a me interessa particolarmente un gesto di Penone: quello di rovesciare gli occhi. Uso la metafora di questo lavoro (Rovesciare i propri occhi, 1970 – n.d.r.) per costruire tutta quella sensibilità, laddove sono passato dalla conservazione della finestra aperta sul mondo dell’Alberti alla Fresh Widow di Marcel Duchamp. In tutto questo tempo c’è stata quasi una sovrapproduzione di polvere, per cui quella finestra si è opacizzata. Quel velo di polvere è diventato così forte che Duchamp dipinge la finestra nera, ma pensiamo anche a Malevic o anche ad un artista oscurato come Agnetti. In quanto artista contemporaneo, anche io ho preso atto di questo processo e mi sono posto il problema se noi artisti, discendenti da questa generazione storica, eravamo ancora in grado di descrivere attraverso la presa diretta sul mondo. La risposta è no. La presa diretta deve passare assolutamente attraverso altri mezzi, uno dei quali è la fotografia. Un altro testo che mi ha letteralmente stravolto è quello di Jean-Paul Sartre, o meglio le considerazioni di Raoul Kirchmayr, Visibilità dello sguardo. Un commento a “Visages” di J.-P. Sartre, pubblicato sulla rivista “aut aut”. E’ incredibile come questo processo di Sartre attraverso lo sguardo sulle relazioni umane sia parallelo all’esperienza fatta dagli artisti attraverso il percorso della storia dell’arte. Sartre dice: entro in una stanza buia, so di incontrare un amico, non vedo il suo sguardo, ma ad un certo momento mi abituo alla luce di questo amico, quindi vedo i suoi occhi, ma lo sguardo non è più una risposta, è qualcosa che inghiotte la luce. E’ il buio totale. In Sartre si tratta di ricostruire una relazione attraverso l’altro, per un artista costruire questa relazione è trovare altri sistemi di poetica interiore. Tutte queste riflessioni nascono dal mio dialogo con un filosofo che segue molto il mio lavoro Riccardo Caldura, che è anche docente di Fenomenologia delle arti contemporanee all’accademia di Belle Arti di Venezia. E’ stato lui ad indirizzarmi, in queste mie intuizioni, a guardare una cosa rispetto all’altra. Il mio lavoro è nato prendendo coscienza di tutto ciò.”

Un lavoro che si sviluppa a partire dagli anni Ottanta…

“Sono autodidatta, la mia formazione è scientifica. Il mio progetto di vita era progettare turbine (ride). Ma questa mia provenienza rimane costantemente all’interno del lavoro.”

 Infatti, c’è una costante allusione al movimento…

“Con le turbine si colgono aspetti importanti di energie, entropie…”

Ma torniamo al punto di partenza…

“La formazione scientifica ha fatto sì che io abbia un atteggiamento verso la pratica dell’arte che è profondamente scientifico, anche nel gesto. Il disegno come sperimentazione, segno che è tautologico, ripetitivo fino a vedere se funziona. Ogni gesto è un dubbio e fa sì che io sopporti la fatica di fare i miei enormi lavori.”

Le grandi dimensioni implicano una notevole quantità di tempo, altro elemento fondamentale all’interno della tua pratica artistica.

“Assolutamente sì. Pur essendo la fisica fuori dalla mia percezione, leggo testi di fisica ed in ognuno trovo dei suggerimenti, o meglio la conferma delle mie intuizioni. Un altro riferimento importante nel mio gesto di fare arte è l’indeterminazione, quindi guardare l’opera con tanti punti di vista.”

I tuoi esordi sono segnati da una fascinazione per la pittura, soprattutto i grandi maestri veneti del ‘500. Come avviene il passaggio dalla cromia al monocromo?

“Ho cominciato a dipingere negli anni Settanta, ai tempi in cui ho fatto il servizio militare, perché ne avvertivo un’esigenza interiore. Mi aveva molto incuriosito tutta l’esperienza dell’arte povera e ricordo che mi colpì molto la Biennale di Venezia del ’72, dove esponeva anche De Dominicis. Ma poi, subito dopo, non sono mai riuscito ad entrare nella pittura della Transavanguardia – quelle sciabolate neoespressioniste – benché abbia letto anche i testi di Bonito Oliva. Al contrario mi era piaciuto il lavoro di Kiefer esposto alla Biennale di Venezia nel 1980 e avevo un’attrazione feroce per gli acquerelli di Turner e per la pittura romantica, quindi l’aspetto del sublime. di cui in Kiefer si leggeva ancora qualcosa. Leggendo, poi, un testo di Jacques Derrida ho trovato la mia dimensione. Ma non mi bastava, sentivo che la mia era una replica di un’altra storia. Avevo bisogno di qualcosa che trasmettesse l’idea veloce, secca, di questo pensiero del sublime, per cui sono passato direttamente al disegno che già faceva parte della mia pratica.”

Tu, però, togli il colore e ti concentri sulla natura. Una natura in continua mutazione, attraversata da un senso di grande incertezza.

“Sì, perché parlo di natura, non di paesaggio. Qui si entra dentro l’idea del sublime, l’aspetto cratofanico di spavento dell’uomo rispetto agli elementi della natura. In fondo disegno la natura, ma parlo dell’uomo. In questo mi è servito molto stare a Trieste, che è una grande città letteraria, dove è passato anche Joyce: è lì che ha cominciato ad amare il cinema, tanto da aprire il suo quando è tornato a Dublino.”

Tornando ancora all’aspetto cromatico, quei colori sottratti al disegno tornano nella tua cucina, soprattutto quando rendi omaggio ad artisti quali Sol LeWitt, Rothko…

“Penso che non cambi assolutamente niente fra il trattamento della materia prima della cucina e quello della pittura. Quando disegno un paesaggio non lo raffiguro, piuttosto è un prendere in considerazione – come dicevo – la cecità, quindi si tratta di un paesaggio dell’animo. In cucina, in realtà, è la stessa cosa. Mi sembrava, al livello istintivo, che costruire dei piatti attraverso quelle persone che sono state fondamentali per la mia visione del mondo, quindi Sol Lewitt, Rothko, Agnes Martin, anche Giulio Paolini che ha scritto un testo per me di cui vado fiero, in occasione di una mia mostra da Massimo Minini, era un chiudere un ciclo. L’atteggiamento di rispetto verso la costruzione del piatto, infatti, è esattamente lo stesso che ho nel costruire un’opera. E’ la bellezza fisica della forma matematica. Paesaggio di peperone rosso con orizzonti di melanzane è dedicato a Rothko. Si tratta di cilindri di peperone rosso ripieno di ricotta che fa un mio amico, Dario Zidarich. Lui ha le pecore nel Carso, fa dei formaggi strepitosi facendoli invecchiare in grotta, come pure la ricotta, calandosi con un verricello a 80 metri. Alla ricotta aggiungo le erbe del mio giardino: erba cipollina, nepitelle e pochissima mentuccia. Visivamente  il cilindro si presenta per metà giallo e per metà nero, colore della scorsa di melanzana che deve essere tagliata, sbiancata e ripassata velocemente in padella con olio e burro. Il peperone, invece, va preventivamente scottato e fatto marinare con olio, un po’ di limone e timo del mio giardino. Ed ecco che, in un sol boccone, si mangia un paesaggio di Rothko!”

Info:

  • Serse, a cura di Lóránd Hegyi
  • MAMC – Musée d’art moderne et contemporain de Saint-Étienne Métropole
  • dal 13 marzo al 17 maggio 2015
  • www.mam-st-etienne.fr

 

 

 

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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