Addio a Judith Malina. Pantera, energia pura, teatro assoluto, utopia tangibile.

La prima volta che la vidi fu Pantera.
Più di trent’anni fa, perchè lei -sono certa- è sempre esistita.
Era una festa, un happening come si diceva allora, in uno strano posto di Roma, il pub Old Goldoni, ricavato in uno dei teatri oggi sicuramente scomparsi, un gioiello  del ‘500, all’interno di Palazzo Altemps, con i soffitti affrescati e la galleria decorata da una ringhiera che sembrava un ricciolo barocco.

Perchè allora il teatro si faceva  in ogni luogo e lei era lì. Nel foyer dall’altissimo soffitto a volta che aveva perso affreschi e colori.
Si confondeva fra fotografi alla moda, mimi, giornalisti, danzatori, teatranti, militanti reduci della rivoluzione ed il primo ermafrodito lanciato sul mercato per fare scandalo.

Lei che aveva stravolto il teatro e la morale, che aveva recitato nelle strade, davanti alle fabbriche, negli ospedali psichiatrici, nuda, fumando pubblici spinelli, manifestando per la pace e contro il governo degli Stati Uniti, quella sera era lì per non so quale destino, accanto a suo marito, Julian Beck scavato dal male, e dal bruciare della sua multiforme passione creativa.

Judith Malina quella sera era Pantera.

Per molti anni, in seguito, passai per i suoi spettacoli, la spiai nei camerini, scrutai l’immobilità del suo corpo accovacciato sulla scena che si faceva voce e movimento con una lentezza che costringeva al silenzio, all’attenzione, come ipnosi.

L’ascoltavo parlare di Utopia, quella stessa di sempre o di quei testi che ti possiedono  perchè incarnano quello che è possibile e reale: una società anarchica, pacifista, umanistica, vegetariana e femminista.
Possibile perché solo lei sapeva che nella realtà non ci sono ostacoli naturali a tale realizzazione, ma solo il dubbio, il dubbio interiorizzato dell’impossibilità di creare una nuova società.
Il dubbio, il finto realismo, che rappresentava il vero ostacolo al cambiamento verso una società più giusta.
Ed allora i testi servivano per mostrarne l’effettiva possibilità, ancora di più, la necessità; servivano per aprire nel pubblico la speranza.
Erano testi capaci di far bruciare.

Ha attraversato la storia, Judith Malina: dalla Germania all’America, da Piscator a Sanguineti, attrice, ma soprattutto regista, poetessa in rivolta.
Ha fondato il Living Theatre, un faro per chi stava lottando, amando e creando. Arrestata, incarcerata, picchiata, madre, figlia di rabbino, immersa nella rivoluzione (“è certo più piacevole fare teatro rivoluzionario in tempi rivoluzionari; ma in un momento storico di tensione pre-rivoluzionaria come è questo, è fondamentale perseverare, è molto più necessario”), ed ininterrottamente costretta dalle idee e dai luoghi a fare quello che fa, altrimenti potrebbe morire e con lei morirebbero le idee. Era la vita -diceva- ad indicarle la via da sempre.

Guardammo insieme una persona cara ad entrambe: “Voglili sempre bene” mi disse e mi portò quella stanza dalle vetrate incorniciate di legno chiaro facendomi sedere alla sua scrivania a guardare la montagna e la valle, l’antica valle calcarea e fumosa, attraversata dal torrente secco per la calura, dove si nascosero i veri partigiani; mi raccontò del Partigiano Carlo che ancora viveva e che era stato ispirazione per lo spettacolo Resistenza.
A sera la sua poesia s’impastò col vento caldo che preannunciava un temporale estivo, mentre la sua necessità della scena la trasformava da pantera a massa di energia, a filamento di luce ramata ed indomabile come i suoi capelli.

Judith Malina l’inverno tornava a New York.
Ed io tornavo in quella stanza, dalle vetrate incorniciate di legno chiaro. Sdraiata sul suo letto scoprivo i muri in pietra,  le travi al soffitto, ed il caldo pavimento di legno.
La stanza mi girava attorno, spumeggiante come il torrente che, appena fuori del palazzo, scendeva  gonfio dell’acqua dalla montagna. Tutto attorno era neve.

Era la bellissima casa italiana del Living Theatre dalla quale, all’improvviso, furono cacciati perché la politica era cambiata, il Partigiano Carlo era morto, e di quell’esperienza culturale non se ne voleva parlare proprio più.
Ma in quell’inverno, oltre la porta arrivavano i suoni del teatro, degli allenamenti, delle parole. Sotto il letto di Judith decine di scatole e di pacchetti.
E nei pacchetti centinaia di libricini, pagine bianche in attesa d’essere riempite d’inchiostro. Copertine di seta cinese colorata: blu, rosso lacca, verde bambu, ricamate con fiori, peonie ed altri fregi classici.
E nelle scatole un’infinita collezione di cartoline. Decenni di cartoline, una vita di cartoline.
Spesso il senso del teatro si rapprende in una cartolina. Un panorama che può contenere tutto: quella luce, quei colori, quelle posizioni; oppure un’opera d’arte che dia l’abbrivio ad un’idea che poi diventa azione, o ancora qualche parola dimenticata, ritagliata dalla memoria che riporta ad un’urgenza, ad una domanda ad un diario strappato. Tutto sparso nelle scatole di scarpe perchè l’utopia possa andare, camminare da sola e fare tutte le vittime che servono per essere sovrana.

Non ha mai smesso Judith Malina di essere Teatro, mai nonostante il ritorno forzato in America, nonostante l’ennesimo, ultimo sfratto dal suo spazio  teatrale. Non ha mai smesso di cercare fondi, di lavorare per far vivere quelle idee e quelle rappresentazioni. Dopo Julian, ha perso anche il suo secondo marito, l’indimenticabile Hanon Reznikov, un gigante vicino a Judith: lei la forza, lui la luce, a volte il contrario, ma nulla l’ha mai potuta fermare.

La sua è stata una vecchiaia difficile, senza una casa, senza niente,  ma continuando a recitare, sempre, anche sulla sedia a rotelle, lavorando ininterrottamente con i giovani, con le donne, con chi le dimostrava di avere la stessa fede nella vita e nel teatro.

Perché non dobbiamo mai aspettarci di cambiare il mondo, ma non dobbiamo mai smettere di cambiare noi stessi.
Judith Malina lo sa, ancora adesso. Dovunque sia avrà sempre un palcoscenico fatto della sua  talento di essere energia. Di essere poesia.

 

 

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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