Rivoluzione. L’arte potrà ancora essere più rivoluzionaria di un software?

Alfredo Jaar, We loved it so much, the revolution
Alfredo Jaar, We loved it so much, the revolution
Alfredo Jaar, We loved it so much, the revolution – Photo A. Rossetti

E’ difficile dire se e quando il concetto di rivoluzione s’è legato all’estetica, e quando per la prima volta un’opera d’arte è stata definita rivoluzionaria. Probabilmente ciò è accaduto molto di recente, rispetto all’esistenza di un fenomeno sociale chiamabile “arte”, e sicuramente da quando esistono dei canoni. Di fatto, se qualcosa è definibile come rivoluzionario, lo è rispetto a un canone vigente, avvertito come tale.

Canone inteso non tanto, com’è stato fino al Rinascimento, un insieme di misure e regole che prescrivono le migliori proporzioni da seguire nel fare artistico, ma quel corpus di prodotti artistici identificati come tradizione, “classici”, da gruppo sociale di appartenenza. Proprio questo canone venne messo in discussione nell’Italia rinascimentale prima della famosa querelle des anciens e des modernes che cominciò a delineare nettamente la tendenza tradizionalista e quella modernista, anche se tutto nacque per stabilire chi fosse il migliore nel lodare il Re Sole – il cui pronipote poi ebbe grosse grane con la rivoluzione, quella della Bastiglia per capirci.

Da allora in poi noi siamo abituati a concepire l’arte come rivoluzionaria, nel senso che le si attribuisce il compito o di significare l’essenza del tempo presente in modo scomodo, irriverente, scioccante, o di presagire i tempi che verranno. Guardiamo spesso indietro cogliendo in tanti artisti una capacità di raccontare gli eventi storici e le caratteristiche sociali in maniera illuminante. Artisti la cui immagine, sempre dal ‘700 in poi, si è arricchita di una serie di stereotipi rivoluzionari: l’artista è ai margini della società, e da lì la coglie come altrove non potrebbe; l’artista si esprime in un linguaggio incomprensibile ai suoi contemporanei, perché vede al di là del suo tempo; l’artista vive in maniera inconsueta perché non ha le normali abitudini di tutti gli altri.

Com’è ovvio, l’ossessione pubblicitaria per il prodotto rivoluzionario ha alla lunga stressato il termine, che comincia presto a divenire logoro e inutilizzabile. Possiamo dimenticarci di avere ancora choc artistici rivoluzionari come – tre esempi qualunque, dei tanti –  quello del 15 aprile 1874, quando Nadar ospitò nel suo studio la prima mostra impressionista, o smascheramenti della società contemporanea come quelli di Warhol, o visioni rese cemento, in palazzi e dimore come quelle di Frank Lloyd Wright?

E’ difficile dirlo. In una quotidianità piena di prodotti rivoluzionari, e chiamati così da un marketing ossessivo, questo secolo si è aperto con un progressivo abbandono dell’aggettivo rivoluzionario per conservarlo a favore del design, il quale a sua volta però è sempre più legato all’arte. L’estetica riflette oggi anche sul rapporto tra essere umano e oggetti tecnici, tra mondo naturale, mondo artificiale e mondo virtuale, perché il suo compito è mettere in questione il pensiero su queste occasioni esemplari. Ma queste occasioni, le opere d’arte, si fanno sempre più labili, incerte e immateriali – si può fare una rivoluzione con loro? L’arte può ancora essere più rivoluzionaria di un software, di un dispositivo elettronico portatile, di un nuovo materiale leggero indistruttibile ed ecologico?

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Lorenzo Gasparrini Dottore di ricerca in Estetica, dopo anni di attività universitaria a Roma, Ascoli, Narni in filosofia, scienze della formazione, informatica, ora è editor per un editore scientifico internazionale. Attivista antisessista, blogger compulsivo, ciclista assiduo, interessato a tutti gli usi e costumi del linguaggio.

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