Favola. Tra la vita e i colori pastello.

In un salotto in cui regnano un ordine perfetto e tinte pastello, un giradischi suona Nat King Cole e Doris Day, un carrello di alcolici in un angolo e uno sgargiante albero di natale nell’altro, disegnano un periodo di feste in una qualunque casa borghese dell’America degli anni Cinquanta. È qui che inizia la Favola di cui è protagonista Mrs Fairytale, esuberante casalinga, al Teatro Franco Parenti di Milano.
Quella di una donna che finalmente può sentirsi completa: sta per diventare madre.
Una gioia da condividere con l’amica di sempre, Mrs Emerald, e la cagnolina – impagliata – Lady. Solo questo desidera vivere una gioia che niente può scalfire, dentro un nido colorato e caotico. Ma Fairytale ha molto da nascondere – dietro a un sorriso perenne – e soprattutto nascondersi.

La crudezza di una vita fatta della violenza di un marito padrone, di tradimenti, una realtà che lei devia e deforma in mezzo a un tourbillon inesauribile e senza freni di gags, giochi di parole, risate sguaiate e incontenibili.
Un allegro caos costante che tuttavia riesce nel non facile compito di mantenersi coerente – nel suo assurdo – per l’intera durata della pièce.

Uno stare in scena che si spiega con il fatto che sotto gli abiti sgargianti della casalinga c’è Filippo Timi, che di questo stile ha fatto la sua cifra.
Un’ironia che permette di avvicinare al teatro anche chi cerchi la pura evasione ma che in realtà è utile a far affiorare gradatamente aspetti che sono tutt’altro che leggeri.
Timi interpreta facendosi quasi totalmente corpo, non solo perchè è a tratti quasi disarticolato ma poichè usa appieno ogni aspetto dei suoi mezzi d’attore: mimica, gestualità ed espressione.

Nel mezzo c’è spazio per un’invasione aliena incombente, e tre avvenenti fratelli – Tim, Ted e Glen – quantomai diversi fra loro, interpretati tutti dal poliedrico Luca Pignanoli, che si presta ad alcune delle scene più riuscite e sfacciatamente divertenti e grottesche, con lo scoperto intento di dare l’impressione di distogliere l’attenzione – per tutto il primo atto – da una drammaticità che per lungo tempo si respira sottotraccia.
Accanto a Fairytale la – apparentemente – più composta e solida Mrs Emerald – che prova a essere coscienza dell’amica fino a vedere a propria volta sgretolarsi tutte le sue certezze. La incarna una straordinaria Lucia Mascino, che divide con intensità la scena con Timi cedendo all’istrione, e porgendogli, lo spazio necessario alle vicende, ma senza farsene mettere in ombra.
Al contrario, tra lo sfavillio dei costumi, tutti e tre gli attori offrono un sunto di tecnica teatrale praticamente perfetta nella sua varietà.

Nell’apparente leggerezza sono riuscitissimi i giochi di prossemica che usano con furbizia l’intero spazio scenico, un’improvvisazione che compone ampie porzioni di testo, e un notevole lavoro sugli strumenti dell’attore che consente loro di rendere pregnanti scene composte anche su una sola parola. Doti rare, queste, anche fra molti colleghi di consumata esperienza.
A permettere i cambi scena pubblicità d’antan tratte da Carosello, a definire il momento storico.
È con il secondo atto che ciò che prima aleggiava si fa via via sempre più concreto.

«Ogni uomo è una trappola» dice Fairytale, e lo scopre sulla proria pelle.

Uomo e donna si scopre nuovamente uomo, divenuto trappola di una genesi che ora non le è più concessa.
E la farsa – senza soluzione di continuità – si colora di amaro, di dramma sfiorato con escamotage che sensa perdere in ironia la rendono molto più sfaccettata. E seppure ciò concede di sbocciare all’amore fra le due donne, esso non può prescindere dall’eliminare l’ostacolo che non concede loro di viverlo, ovvero la vita per quella che realmente è, e un marito che deve essere ucciso perchè «l’uomo ha l’omicidio nel cuore».

Anche i caratteri mutano e si evolvono, fino a un apice dove tutto può avvenire, oppure crollare, quando i sentimenti deflagrano, insieme alla volontà di librerarsi dalle condanne imposte dalla stesso essere donne.
È qui che il testo di Timi – che ne è autore, regista interprete e scenografo – recupera la definizione di favola già propria di quelle antiche, dai Grimm a La Fontaine. Dietro all’immagine lieve si cela la vita e gli aspetti socialmente pregnanti – quali l’emancipazione femminile – che si lasciano cogliere da un uditore sensibile e accorto, che lascia la sala con infiniti spunti di riflessione.

Favola, infarcito di divertissement anche molto colti – come una quantità di citazioni filmiche – è in realtà un prisma composito, onirico, grottesco e di forte impatto emotivo.
Il percorso, come la vita, è tortuoso, a tratti inaspettato. E il finale sa essere sorprendente.
La bambina che c’era non c’è più, ma è diventata capace di «dare coraggio agli amori senza nome», come quello della Favola che chiede di raccontare.
Ma con grazia e leggerezza, come di neve.

Perchè il pericolo – lo sintetizza Emerald nel monologo più bello e ricco di pathos dell’intero spettacolo – è dietro l’angolo. «Odio la neve, non ci mette niente a diventare fango»

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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