Affinità elettive #1. Altro su Venezia, 56Biennale

Padiglione Francia

Visitare tutta l’espansa e liquida 56.Biennale di Venezia, durante i tre giorni della vernice, è quasi umanamente impossibile. Se poi si aggiunge il fatto che, nelle ultime edizioni, la preview non è più riservata agli addetti, ma anche a gruppi eterogenei di persone (scolaresche, ma anche comitive in vacanza con tanto di guida e auricolari), all’umanamente si somma il praticamente e il materialmente. Così, i pochi allenati o, forse, gli eterni pigri come me, fissano delle tappe imperdibili e poi, nel caso dovesse avanzare tempo (?), inseriscono fermate aggiuntive. Nella carrellata dei Padiglioni, spalmati tra l’Arsenale e i Giardini, e nella Mostra Centrale, si notano delle assonanze, delle vicinanze, finanche delle affinità elettive. E anche per questa edizione, aperta il 9 maggio, si è per me rinnovata questa magia.

Prima fra tutte, la ripetuta presenza di alberi.

Quelli di Céleste Boursier-Mougenot che, con Revolutions, pone all’interno del Padiglione Francia un albero (cui fanno da pendant altri due posti al di fuori del padiglione) al quale è stata del tutto sottratta la sua naturalità. Un albero meccanico, estirpato dal suo habitat e calato in un contesto altro, o diverso, per puro diletto dell’uomo, come uno dei suoi tanti oggetti. Un contesto, quello del Padiglione, che, per il visitatore, si trasforma in un ambiente fortemente evocativo, aiutato dalla presenza di morbidose gradinate sulle quali sdraiarsi per contemplare la (non)natura, questi alberi in movimento (transHumUs), che richiamano foreste magiche abitate da fantasiosi gnomi o spiritelli, le cui correnti elettriche producono un certo suono che, verosimilmente, dovrebbe riprodurre “le voci degli alberi”, ma che non hanno niente di naturale. Un Padiglione che racconta, quindi, la meccanicità e la falsità di certi ambienti che ci attorniano, che appaiono naturali, quando di naturale hanno, ahimè, ben poco.

Quello apparentemente immenso e maestoso, del duo IC-98 (al secolo Visa Suonpää e Patrik Söderlund) del Padiglione Finlandia, nell’animazione digitale Abendland incluso nell’installazione site-specific Hours, Years, Aeons è ridotto a una scarna riproduzione grafica. Una sagoma filiforme bianca su uno sfondo nero, che, impercettibilmente, muove le proprie fronde e che, di tanto in tanto, diviene dimora di uccelli che, silenziosamente, si posano sui suoi rami. Un albero che dovrebbe rappresentare la risorsa sulla quale la Finlandia ha fondato la sua economia e che, nel perpetrarsi del suo scellerato utilizzo, probabilmente, potrebbe anche essere l’ultimo, a seguito della selvaggia deforestazione e dell’assenza di tutela del territorio. Anche qui, fa da sottofondo quella “voce degli alberi”. “Sottofondi”, “voci”, che, immediatamente, rimandano al famoso brano 4’33” di John Cage col quale voleva, infatti, invitare il pubblico ad ascoltare i suoni della vita, e non il silenzio.

Infine, il bellissimo albero di Robert Smithson, Dead Tree (1969), nella mostra del Padiglione Centrale. Appartenente a quei lavori che l’artista stesso definiva earthwork, con i quali metteva in dubbio la percezione umana e la mancanza di speranza del progresso, la relativa devastazione ambientale e la condanna dei sistemi politici che non garantiscono sviluppi armoniosi con la natura.

Un’altra affinità elettiva tra i lavori esposti è la diffusa presenza di elementi naturali.

Ispirato ai testi di Halldór Laxness, sulla spiritualità della natura e, quindi, della sua fragilità di fronte agli insensati e rapidi cambiamenti è They Come to Us without a Word di Joan Jonas nel Padiglione Stati Uniti, dove la videoinstallazione, accompagnata da oggetti, disegni e sculture, racconta frammenti di storie, frammenti di quanto rimane, provenienti dalla tradizione orale di Cape Breton, Nova Scotia, che si completano di video in video, installati a coppie in ciascuno stanza. E la stessa Jonas afferma:

“We are haunted, the rooms are haunted”.

Dell’erba contenuta e costretta in rigide forme, costruite da Ahmed Abdel Fattah, Gamal Elkheshen e Maher Dawoud, in Can you see?, all’interno del Padiglione Egitto, che modellano un austero giardino. Creano, anche, la parola Peace che in arabo, linguisticamente, equivale al concetto di paradiso e quindi piante e giardini. Anche qui un giardino finto, attraversato da altrettanti animaletti finti, per i quale il visitatore (di nuovo) può decidere se far loro attraversare o meno il verde delle piante, e se possono essere animaletti simpatici o brutti. Infatti, attraverso dei tablet, facendo pressione su un + o su un – può scegliere se far volteggiare una farfalla, planare un uccellino o saltellare un coniglietto, oppure far scorrazzare delle blatte.

Carico di poesia è To be all ways to be di Herman de Vries nel Padiglione Olanda, anticipato all’esterno da un blocco roccioso sul quale, a lettere d’oro, è incisa la frase veritas existentiae. Un Padiglione all’interno del quale l’artista analizza i fenomeni naturali strettamente correlati all’esistenza umana, raccogliendo e classificando, come in un moderno tridimensionale ed eccentrico erbario, gli elementi attorno a noi (foglie, sassolini, conchiglie, e così via), abbattendo scale gerarchiche nell’allinearli tutto allo stesso livello.

Elementi naturali che, nella grande installazione Wrong Way Time di Fiona Hall nel Padiglione Australia, si fondono alla tradizione aborigena (intrecciare le piante per creare delle maschere), restando così in armonia con la natura. Ma in questa grande installazione, che in realtà è una vasta wunderkammer, un’infinità di oggetti sono manipolati per denunciare i fallimenti della politica e della finanza globale che, tra le tante conseguenze negative, ha portato anche alla sovrapproduzione di prodotti e, quindi, di rifiuti, che entrano a far parte integrante di questi stessi manufatti (resti di bottiglie, fanalini di macchine, e così via).

Un giardino incantato è quello realizzato per il Progetto Swatch: (di nuovo) finti fiori luminosi, accompagnati dal frinire meccanico di invisibili grilli, costruiscono un poetico labirinto avvolto nel buio, nell’immersiva installazione di Joana Vasconcelos.

Anche nella Mostra ci sono simili elementi, a partire dal Padiglione Centrale con Marcel Broodthaers e il suo emblematico Jardin d’Hiver (1974). Appartenente alla serie Décors, con un atteggiamento da scenografo, Broodthaers creò quest’installazione ambientale utilizzando ben trentasei palme in vaso, sedie pieghevoli, fotografie, stampe d’arte con la quale realizzò una parodia della storia. Lo splendido e allo stesso tempo in alcuni passaggi raccapricciante video di John Akomfrah, Vertigo sea, in linea con i lavori realizzati dall’artista, combina spezzoni di filmati contemporanei, d’archivio e immagini dell’era coloniale, con i quali muove delle critiche alla politica imperialista britannica e qui, nello specifico, all’eterna lotta tra l’uomo e l’Oceano e le sue creature, messe in pericolo dall’avidità dell’uomo che, pur di soddisfare anche assurdi capricci (vuoi la pelle di foca e di orso), ricorre a metodi atroci per catturare gli animali di quest’ambiente unico e delicato.

Mentre nella sezione dell’Arsenale spiccano i lavori di Christian Boltanski, Mika Rottenberg, Taryn Simon e Isa Genzhen.

Nel poetico video Animatas di Christian Boltanski, un’immagine fissa, oltre a registrare il lento scorrere del tempo, annota anche gli elementi della Natura (il sole, il vento, la sabbia del deserto di Atacama, il cielo) che circondano l’uomo e che ne possono finanche rappresentare lo spirito. Ottocentocinquanta campanelle giapponesi disegnano la costellazione della buona fortuna e, allo stesso momento, la data di nascita dell’artista stesso. Campanelle che prefigurano gli altari dedicati ai morti e collocati lungo alcune strade del Cile.

Nella particolare videoinstallazione NoNoseKnows di Mika Rottenberg, c’è il corpo femminile e il suo rapporto con i sistemi di produzione. Nello specifico, è rappresentata la produzione che maggiormente è associata, per antonomasia, alla donna: le perle; ottenute con estenuanti catene di montaggio. Altrettanto complessa e articolata è l’installazione Paperwork, and the Will of Capital di Taryn Simon. L’artista ricrea artificialmente bouquet impossibili che hanno accompagnato e decorato la firma di importanti accordi e trattati. In dodici libri ha riportato, sulla pagina di sinistra, il trattato e i bouquet impossibili da lui ricostruiti sulla base delle immagini di archivio, e, sulla pagina di destra, il fiore predominante del bouquet scelto dagli organizzatori per trasmettere specifici significati attraverso quel silenzioso linguaggio dei fiori.

La completa perdita di naturalità è, infine, incarnata nelle monumentali Two Orchidee di Isa Genzken, installate nei giardini stessi.

Affinità elettive che possono essere ampliate, discusse, reinterpretate, ma che, come sempre, rinnovano la capacità degli artisti di imporre una sosta di riflessione, di porci prepotentemente di fronte al grande interrogativo di questo millennio: cosa vogliamo fare del nostro Pianeta?

 

+ ARTICOLI

Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.