Affinità elettive #2. Venezia, 56Biennale. Cosa hanno in comune Canada, Grecia, Lettonia, Norvegia e Germania

Padiglione Canada, BGL Jasmin Bilodeau, Sébastien Giguère et Nicolas Laverdière

Canada, Grecia, Lettonia, Norvegia e Germania, cosa hanno in comune? Oltre alla loro presenza con i rispettivi Padiglioni nella 56.Biennale di Venezia? Apparentemente niente. Visitandoli, però, un sottile filo rosso li lega. Con le dovute differenze e finalità, ogni artista (o progetto) chiamato a rappresentare il proprio Paese, ha piegato lo spazio interno del Padiglione a precise esigenze, trasformando, così, il contenitore in qualcosa di altro.

Non più un semplice spazio nel quale allestire le opere, ma un dentro che si trasforma in un interno, e catapulta il visitatore in una diversa dimensione. Delle ricostruzioni di inedite realtà domestiche, la proposta di una certa quotidianità, nel senso più ampio del termine, o di un richiamo ad essa. Certo, inserire alcuni lavori in questa lettura, può apparire come una forzatura, come volerli tirar dentro per i capelli. Ma la sensazione provata nel trovarsi dentro è stata simile, un’affinità emotiva che per ciascuna opera mi ha fatto sentire altrove. Come quel lacerto di pavimento, nel Padiglione Germania, il cui labirintico allestimento, che ha totalmente stravolto l’intero Padiglione, andando a coinvolgere la totale verticalità della struttura, compreso il tetto. Un allestimento di scale e bivi, che conducono in ambienti diversi. Per la realizzazione del progetto Fabrik, che si compone di quattro lavori che affidano agli altri un ruolo fondamentale per riflettere sui concetti di rivolta, lavoro e migrazione, il sito è stato consegnato nelle mani degli artisti Olaf Nicolai, Hito Steyerl, Tobias Zielony, Jasmina Metwaly/Philip Rizk. Questi ultimi due, con base a Il Cairo, oltre foto e video di Out on the Street, hanno realizzato Draw It Like This. Un lavoro site-specific creato con le piastrelle, rimosse da un solaio de Il Cairo, tante quanti sono stati gli accadimenti/ricorrenze avvenuti durante i processi neoliberisti dell’Egitto. Così, queste mattonelle che compongono un pavimento, un semplice pavimento, prelevate dalla loro originaria collocazione e spogliate della primigenia funzione, sono innalzate a simbolo di muti testimoni, che ci evocano dei racconti che però non possiamo ascoltare.

Ancor più forzato può apparire il lavoro realizzato all’interno del Padiglione dei Paesi Nordici, quest’anno rappresentato, per la prima volta nella sua storia, dalla Norvegia. Rapture, l’intervento site-specific di Camille Norment, fonde in una grande installazione, che con i suoi elementi travalica lo spazio stesso del padiglione, elementi architettonici con il suono, per esplorare, quindi, il rapporto tra il corpo, il suono e l’architettura, e raggiungere un certo rapimento estatico. Un suono costante, ottenuto da una personale rivisitazione della glassarmonica, un raro strumento la cui invenzione è stata attribuita (senza non poche riserve) a Franklin Benjamin. Un suono che attraverso se stesso si amplifica per mezzo degli elementi architettonici. Un’amplificazione che sembra aver devastato lo stesso ambiente. Perché lo spazio creato appare come quello di una grande stanza le cui finestre sembrano esplose a seguito di un conflitto. Le vibrazioni del movimento dei visitatori sono catturate/rapite dai vetri devastati e rilanciate da invisibili altoparlanti, realizzando, così, una sorta di “concerto del corpo”.

La ricostruzione di una sbilenca officina, per mezzo di scarti edilizi assemblati alla bell’e meglio, è il suggestivo mondo dentro il quale ci conducono Katrīna Neiburga e Andris Eglītis con Armpit nel Padiglione Lettonia. Un’officina che potrebbe essere stata costruita da qualsiasi pensionato, impiegato per una vita in una delle tante fabbriche che nel corso degli anni si sono perse per l’affermarsi di quelle riforme neoliberiste che hanno condotto alla grande crisi economica del primo decennio del XXI secolo. Quei pensionati che, attraverso il loro sapiente lavoro manuale, conferiscono una nuova funzione e nuova vita a quei circuiti artificiali e strumenti elettronici spesso buttati via troppo presto, sottolineando l’importanza dell’essere umano e della sua anima rispetto all’immaterialità della nostra epoca. Una lentezza, una cura e un’inventiva narrati da quattro piccoli schermi approntati alla fine di questo strampalato garage.

Riferendosi sempre alla crisi economica dell’Europa, alla perdita di certi lavori artigianali e, di conseguenza, di una certa manualità/umanità, è l’incantevole installazione di Maria Papadimitriou nel Padiglione Grecia. Why look at animals? Agrimiká, intendendo per Agrimiká gli animali che convivono con l’uomo ma non si lasciano addomesticare, gioca sul doppio significato del termine e, allo stesso momento, sul doppio livello reale e capacità evocativa. Un reale negozio di pellami di Volos letteralmente trasportato nel padiglione per denunciare, non solo, la crisi economica che in Grecia si è abbattuta anche più ferocemente, anche per i noti motivi dell’allegra gestione finanziaria, ma anche quanto l’individuo possa trasformarsi in selvaggio e perdere quell’aspetto umano che dovrebbe contraddistinguerlo dagli altri esseri viventi; quanto un luogo, come una bottega artigianale, ricca di vita, diventi spettro di se stessa e specchio di un sistema malato; di quanto l’imbarbarimento conduca l’animo umano sempre più lontano da se stesso. Racconta una piccola storia e al contempo la Storia.

Questo senso di spiazzamento, straniamento è ancor più forte in Canadissimo, così come è stato ribattezzato il Padiglione Canada. BGL, con umorismo e stravaganza, ricostruisce uno spaccio (i cui scaffali sono pieni zeppi di articoli di svariati prodotti), uno spazio abitabile e uno studio.  Nei quali, seppur vivi e colorati, non si può far a meno di avvertire l’assenza dell’uomo, la sensazione che siano stati abbandonati, che non siano capaci di dare quello di cui veramente l’uomo ha bisogno. Nella perfezione dei dettagli e nell’altissima verosimiglianza della disposizione e dell’offerta di questi oggetti, ci mette di fronte all’abbondanza e in molti casi al superfluo che domina le cosiddette società occidentali.

Seppure ciascun Padiglione afferma una indiscussa continuità del prepotente e definitivo ingresso della realtà nell’arte dagli anni Sessanta. Precedenti accenni sono offerti da El Lissitzky con i suoi proun e da Kurt Schwitters con il suo Merzbau, ma è con Marcel Duchamp prima e, soprattutto, con Edward Kienholz dopo che le installazioni ambientali riproducenti una porzione di vita reale. Nei lavori realizzati nei padiglioni sopradescritti, ho avvertito, in questa operazione di trasposizione, una certa necessità di ricostruire ambienti conosciuti e riconoscibili affinché il visitatore si avvicini senza timore, in quanto sono tutti ambienti a noi noti, compresi, per instillare un dubbio, per reinventare uno sguardo sul mondo. Quindi, non c’è più l’attesa di un evento, ma la mera trascrizione di quello che accade. Anche nel passato, erano questi gli intenti di simili lavori, ma ho avvertito qui una certa spinta a voler risvegliare anche la sensibilità, la compassione, nel tentativo di far uscire l’uomo dalla sua personale boule de neige e farlo stendere verso il prossimo, verso il suo vicino, distogliendo, almeno per qualche minuto, lo sguardo dagli schermi.

+ ARTICOLI

Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.