Richard Serra, l’uomo d’acciaio e l’orologio

Richard Serra, Throwing Lead at Leo Castelli's Warehouse, 1968.

Richard Serra, poderoso artista, scultore che collabora in Francia da almeno tre decenni, e già pluripremiato, ha ricevuto la chiamata per la Legione d’Onore francese. A N.Y. l’ambasciatore francese negli Stati Uniti Gérard Araud gli conferirà (1 giugno 2015), in una gran cerimonia, la massima onorificenza francese nata nel lontano 1802.

Classe 1939, di San Francisco, pioniere tra pionieri, per quanto concerne i suoi punti di riferimento egli ha Brancusi, Alberto Giacometti, Philip Guston e il Diego Velazquez de Las Meninas che fu una rivelazione per il giovane Serra, che lo intese come un tentativo di prolungamento della pittura e di apertura all’esterno del quadro… Egli guarda anche all’Italia: Giotto, Donatello, Mantegna e una certa metafisica dechirichiana. Il nostro Paese lo accolse nel 1966, quando l’artista venne a Roma da esordiente: la Capitale fu il suo “trampolino di lancio” e un italiano – un triestino negli States – lo appoggiò, Leo Castelli, un altro italiano che credette in me, diventando il mio gallerista. Era un genio, il dealer più importante del secolo” (intervista all’artista di Alessandra Farkas, “la Lettura” – “Corriere della Sera”, cit. in http://www.dagospia.com/rubrica-31/arte/artspia-people-cos-parlo-richard-serra-koons-hirst-artisti-81325.htm).

Deriva anche dalla sua esperienza in acciaieria – dove lavorò per mantenersi agli studi – la sua propensione per i metalli pesanti (per denigrarlo qualcuno gli affibbiò il soprannome Uomo d’acciaio, dimenticando l’inevitabile associazione a qualche super-eroe marvelliano!), le grandi dimensioni e una monumentalità dichiarativa che lo contraddistinguono. A questo si aggiunge un’espressività decisa, attenta all’essenzialità delle forme, all’asciuttezza compositiva e alla messa in atto di un rapporto con la Natura in cui al dialogo si affianca quel perentorio intento di fare dell’Arte un linguaggio assertivo. In tale apparentemente semplice concettualità – in realtà assai complessa e in quegli anni coraggiosa, portata a sfidare status quo, accademia e preconcetti – si rintraccia quella volontà politica e attivistica che caratterizza la sua produzione e quella della sua generazione importante perché portatrice non di azione d’imperio – nonostante la preponderanza del gesto dell’arte e dell’artista – ma di sintassi.

Capace di gestire magnificamente territorio, misure, spazialità, ciò è forse dovuto anche alla sua passata intensa, strettissima frequentazione del mondo della danza, del  gruppo Judson Church, di Yvonne Rainer e della performer e allora compagna Joan Jonas; lo riconosce egli stesso: “They taught me more about space and movement and gravity than anyone else.” (“The Guardian”, 5 ottobre 2008) / “I ballerini erano i radicali veri. Mi hanno insegnato di più sullo spazio, il movimento e la gravità di chiunque altro.”

La sua tridimensionalità astratta totemica e per certi versi apodittica, che fu per questo contestata da alcune protagoniste e teoriche del femminismo storico, che la decodificarono come intimidatoria,“ultimo rantolo” muscolare che poneva questioni e temi maschili, rientra nella sperimentazione della Land Art, del Minimalismo e oggi della Pubblic Art; la sua ricerca pone l’arte come presenza “che entra a far parte di uno spazio pubblico e crea un tutt’uno con l’ambiente e lo spettatore, la cui esperienza individuale è l’unica vera protagonista”. (Alessandra Farkas, intervista cit.).  Nel suo lavoro, “the person who is navigating the space, his or her experience becomes the content.”  (“The Guardian”, cit.) / “la persona che naviga nello spazio, la sua esperienza, diventa il contenuto.” Così, tutto il rapporto consueto soggetto-oggetto è invertito. Non dimenticando il Futurismo – nonostante Serra non lo ami -, è vero che, come l’artista individua: La Chitarra di Picasso , un’opera tra dipinto e scultura, ha iniziato un processo inarrestabile continuato dai russi Vladimir Tatlin, Kazimir Malevic e El Lissitzly che hanno visto in quel quadro l’apertura dello spazio e la possibilità per il pubblico di interagire con l’arte.” (A. Farksas, intervista, cit.). Dunque alla sintassi, come dicevamo, si aggiunge la relazione. Nonostante talvolta questa non sia facile, come dimostra la vicenda del Tilted Arc, la lunga curva in acciaio che nel 1981 fu installata al Federal Plaza di Manhattan, non amata dalla cittadinanza e soprattutto dalle istituzioni americane, Ronald Reagan in testa, fu infine fatta rimuovere nell’89. 

Ma, disse Serra, “I don’t think it is the function of art to be pleasing” (“The Guardian”, cit.) / “Io non credo che la funzione dell’arte sia piacere”, e, soprattutto, compiacere, ed è vero che, a dar ragione all’artista e a Charles Baudelaire, spesso “Il pubblico rispetto al genio è un orologio che ritarda.”. Eppure, in pochi decenni lo ha saputo capire e apprezzare. Forse, grazie alla geometria e alla sua interpretazione anche un po’ psicologica: della curva. Che Serra usò e ad un certo punto introdusse nelle sue forme/sculture. Già: il “Modernismo era un angolo retto; l’intero 20° secolo era un angolo retto” (cit.), ma poi la dolcezza della spirale, che rimandava all’idea di morbidezza, di percorso inclusivo, di sinuosità possibiliste, a una certa attitudine maggiormente relazionale – ecco di nuovo che torna questa parola e il concetto – ha fatto il miracolo. E così quell’orologio si è sincronizzato.

 

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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