Progetto Mandrione

W. Klein, L' acquedotto in Via del Mandrione e in Via di Porta Furba, 1957

Il Mandrione è un’area che si trova dentro Roma, ad est della città, nell’attuale IX Municipio, ma considerata ancora, nell’immaginario collettivo, periferia. Poiché la Capitale è cresciuta e si è allargata enormemente, andrebbero ripensate anche le sue geografie e terminologie che relegano a territori e ruoli marginali alcuni suoi luoghi che – questo sì – rientrano in una storia di borgata e adattamento abitativo spontaneo.

Oggi questi tratti distintivi sono ancora in parte visibili e si sono sottratti alle mode radical-chic che innalzano il degrado di certi quartieri ad agiografia da usare per scopi commerciali e di movida che non portano ciò che ci si aspetterebbe: profonda, reale rigenerazione. Così, finita la tendenza del momento, spentesi la luce mediale e l’attenzione sociale, San Lorenzo,  Casilina, Prenestina, Tor Sapienza, il Pigneto e simili realtà già complicate restano… complicate… Il Mandrione non è stato ancora sfruttato da tale voga e ha mantenuto un peculiare carattere di autenticità oggi raro da trovare in una metropoli.

Ubicato alla destra del tratto iniziale di via Casilina – Pigneto, giunge sino a via Tuscolana all’altezza di Porta Furba, affiancato dai binari ferroviari e dai magnifici, ciclopici resti dell’acquedotto romano.

Il suo nome deriva dall’antica usanza di portare le mandrie a pascolare nei prati che allora erano tantissimi e vasti: prima, cioè, dell’edificazione selvaggia del Secondo dopoguerra. Alcune magnifiche foto analogiche ne palesano l’originaria, bucolica caratteristica, altre la realtà anche antropologica (Franco Pinna scatta nel 1956 immagini memorabili sotto la spinta dello studioso Franco Cagnetta mosso da un’inchiesta da redigere, che fu appoggiata dall’editore Giangiacomo Feltrinelli) e altre raccontano di registi, letterati e intellettuali intensi e benevoli. Rossellini, Moravia, Goffredo Parise, Pasolini – più di tutti –  che furono, però, bacchettati, da un loro contemporaneo straordinario ed eroico: Don Sardelli, che si lamentava del loro rapporto di tipo “artistico”, con l’esperienza dell’emarginazione, recepita più come materiale narrativo, o spunto di riflessione. Egli, invece, faceva. Attivista per il riscatto esistenziale, morale e culturale dei baraccati di quell’area capitolina, prima sfollati dai bombardamenti del conflitto, poi i migranti di allora, quelli provenienti dalle regioni più povere del Sud Italia, questo prete sui generis, inviso al potere ecclesiastico più conservatore, denunciò le condizioni di povertà e abbandono di queste persone e li aiutò a migliorarsi, anche e a scolarizzarsi… Il Mandrione si colorò di buono anche grazie a lui e poi alla psicologa e pedagogista Angelina Linda Zammataro (Linda Fusco) che, alla metà degli anni Settanta, affrontando la questione dell’integrazione degli zingari – così si qualificavano – che lì avevano insediato le loro dimore, contribuì a sanare discriminazioni: anche a Scuola, impreparata, come lo erano alla limitrofa elementare Giuseppe Cagliero, a seguire quelli che venivano chiamati “i piccoli zingarelli”. Indirettamente, l’iniziativa di questa educatrice concorse a recuperare virtuosamente quella porzione di città. Successivamente, dopo essere diventata punto critico e malfamata, un ulteriore recupero di alcune decine di anni fa l’ha riconsegnata alla collettività in tutto il suo fecondo, malinconico splendore vintage. 

Ora, accanto alla presenza di studi di artisti – Gianfranco Notargiacomo tra i primi; e Alfredo Pirri; Alessandro Sarra etc.-, di fotografi creativi come Pippo Onorati – la sua Mammanannapappacacca, open house e convivio clandestino – e  anche di alcuni architetti, con spazi e operatività interessanti al mulino dismesso che fu della famiglia Natalini, oggi indicato come mulino Marrana, e con intorno artigiani, laboratori e altre piccole attività, vi si affaccia una nuova struttura e organizzazione (Fondazione per l’Arte), con locali in un ex capannone, e il Progetto Mandrione (2015), ideato e curato da Daniela Bigi.

Ne parliamo con lei e con Ilaria Bozzi che presiede la Fondazione:

Cosa è esattamente la Fondazione per l’Arte?

Ilaria Bozzi: La Fondazione per l’Arte nasce per promuovere l’arte e la cultura con l’intento di stabilire un dialogo aperto di scambio con il circuito internazionale. Questa decisione ha origine dal desiderio di contribuire concretamente e attivamente a confermare nella capitale il ruolo di epicentro artistico-culturale con l’apporto di una collaborazione sempre più solida tra Italia ed estero. La Fondazione è un centro di ricerca, produzione e dialogo sui temi dell’arte. Ha l’obbiettivo di coinvolgere un pubblico sempre più vasto, invitandolo ad esplorare un contenuto ricco di tutti quei preziosi processi di pensiero, progettazione, creazione che fermentano nel mondo dell’arte. Progetto Mandrione, al suo terzo atto, contribuisce a restituire alla scena artistica italiana una nuova piattaforma di visibilità e di valorizzazione, che rappresenti al contempo anche una concreta possibilità di incontro con la nuova scena europea.

Perché è stata individuata proprio questa zona, considerata ancora “periferica” nell’immaginario collettivo?

Ilaria Bozzi: Il Mandrione, periferia ad est della città, è una delle pochissime aree che ancora conserva i tratti di autenticità della nostra storia recente. E’ stata una zona tra le più difficili, frequentata da intellettuali sensibili, da Moravia a Pasolini a Rossellini, oggi ancora vivace anche grazie alla compresenza di realtà artigianali, artistiche, il tutto all’ombra degli archi dell’acquedotto romano, in un cortocircuito straordinario tra i segni del passato e l’operosità del presente. Il Mandrione è la testimonianza di una città che ha continuato a trasformare se stessa e il suo patrimonio.

Come è organizzato e come sono scelte le personalità con cui collaborare?

Ilaria Bozzi: Lo spazio espositivo è pensato e organizzato come luogo dinamico di formazione e crescita, si trasforma di volta in volta in un grande laboratorio dove i gruppi di artisti invitati possano misurarsi insieme per enfatizzare queste connessioni e per colmare alcune lacune del nostro panorama culturale, favorendo nuove interazioni e soprattutto favorendo l’espansione delle idee. Contestualmente ai lavori di ristrutturazione dello spazio, nel 2014, nacque un cantiere di lavoro intellettuale di esperti di varie discipline per ideare una serie di progetti e ancor prima per riflettere sull’identità complessiva da dare al programma della Fondazione, che guardasse con ampio respiro oltre alle arti visive anche al teatro, alla musica, l’architettura. Il Progetto Mandrione, ideato e curato da Daniela Bigi, è il primo attraverso il quale il cantiere di lavoro intellettuale della Fondazione si è trasformato in cantiere di lavoro operativo.

Cosa è Progetto Mandrione? Da quale esigenza nasce?

Daniela Bigi: Il Progetto Mandrione è il primo, appunto, che la Fondazione per l’Arte ha scelto di accogliere e promuovere all’interno di una programmazione che nel corso dei prossimi mesi si arricchirà di ulteriori direzioni di lavoro. Si tratta di un progetto interamente dedicato alla scena emergente italiana, alla generazione che rappresenta gli anni Dieci. Nasce dall’esigenza di intraprendere un percorso autentico e non imitativo dentro l’arte dei nostri giorni. Dalla considerazione della difficoltà di individuare e sostenere in tempo reale l’arte italiana. Dall’impossibilità del nostro paese, soprattutto negli ultimi decenni, di riconoscersi pienamente nel portato della nostra cultura contemporanea, in particolare quella artistica. Dalla stanchezza nei confronti di una provinciale e acritica sudditanza a qualsiasi forma di importazione di pratiche e di idee. Dallo scarso, e comunque non incisivo, sempre solo occasionale, impegno istituzionale per questa nuova generazione, a differenza di paesi che investono seriamente nel sistema di valori del quale è portatrice l’arte, proprio a partire dai più giovani (e, con un occhio ben consapevole della questione sempre spinosa e delicata che riguarda il rapporto arte/potere, se non volessimo ricadere nel solito racconto dell’arte americana e in tanti altri sempre citati, potremmo andare indietro nel tempo e cercare riferimenti significativi dentro i capitoli più felici e illuminati della nostra storia, risalendo per esempio – uno tra i centinaia esempi possibili – alla Cappella Sistina, e in particolare alla prima campagna di lavori, quella degli anni ‘80 del 1400, per ragionare sul significato e sulla ricaduta che ebbe in quella situazione la politica culturale sia interna che estera di Lorenzo il Magnifico).
Nasce infine dalla necessità di tornare a concentrarsi sul fare, su un pensiero che si approfondisce e si condivide attraverso il fare. E lo spazio è un ex capannone artigianale, circondato da maestranze artigiane. Li chiamiamo non a caso cantieri/residenza…

Daniela, hai mai abitato il Mandrione? Sei di zona? Quanto conosci questa realtà per averla frequentata? Quanto per averla fatta propria in funzione del progetto e in che modo ci sei riuscita?

Daniela Bigi: No, non l’ho mai abitato, lo conoscevo pochissimo, non l’ho mai frequentato se non letterariamente, non l’ho ancora fatto mio, semplicemente trovo di estremo interesse, oggi, la qualità del paesaggio sia urbano che antropico che conserva gelosamente. Credo che la presenza della ferrovia, dell’acquedotto storico e dei tanti artigiani la dica lunga sugli elementi dai quali dovremmo ripartire per nuove considerazioni e differenti progettualità. Quel paesaggio va letto, come dire, in controluce: la sua filigrana potrebbe restituire, per sintesi, importantissime indicazioni circa il lavoro da svolgere – come società intendo – nei prossimi lustri. Il Mandrione è diventato una presenza fortissima del nostro quotidiano in Fondazione, alcuni valori che si respirano tuttora nelle maglie di questa periferia sono gli stessi che impregnano il fare dell’arte dei più giovani. I quali si stanno, necessariamente, confrontando con l’urgenza storica di una riconfigurazione –  lenta e niente affatto lineare – di un sistema valoriale.

Da tempo c’è un proliferare di Residenze, forse perché in tempo di crisi costano mediamente poco portando esperienze sul campo sia a livello formativo che sul territorio in cui si sviluppano e operano. Come credi possano realmente essere rilevanti all’interno di un Sistema dell’Arte in crisi anch’esso?

Daniela Bigi: Il modello delle residenze, per come viene vissuto in una grande quantità di situazioni, sia in Italia che all’estero, lo trovo uno dei tanti trend che si avvicendano nel mondo dell’arte, funzionale alla necessità di far circolare gli artisti, far crescere i loro curricula e di conseguenza il valore commerciale delle loro opere. Una strategia che si colloca tra il marketing e la mondanità.
In realtà, la tradizione alla quale fanno riferimento le residenze è longeva, e laddove vengono vissute in modo serio, con partecipazione, istanza di conoscenza, ricerca, come in alcuni casi succede e come è sempre avvenuto anche in passato – pensiamo al Gran Tour –, rappresentano una grande linfa, sia per gli artisti che, di conseguenza, per il sistema stesso.
Non bisogna dimenticare che molti dei lavori più importanti di questi nostri anni sono stati prodotti all’interno di programmi di residenza.

Roma sta diventando, a suo modo, un museo “diffuso” e di Arte pubblica / Partecipata; bene. A nostro avviso, però, questo, e iniziative tra le quali, permettimi, Progetto Mandrione, rappresentano soprattutto palliativi o, nei casi migliori, un buon punto da cui partire per una più profonda, permanente rigenerazione che sia culturale, urbana, etica e soprattutto sociale. Il rischio è, cioè, che a tali segni virtuosi e importanti poi non corrisponda una reale riqualificazione né una politica ad hoc a tal fine. Cosa ne pensi?

Daniela Bigi: Sì, credo che si attribuiscano con troppa facilità delle ricadute miracolose ai progetti legati alla rigenerazione urbana, si ingigantisca il possibile portato di azioni che in realtà devono moltiplicarsi e stratificarsi lungo il tempo affinché possano davvero produrre dei frutti. Non ci sono ricette facili e tanto meno magiche. Pertanto, condivido la tua affermazione, in molti casi si tratta di palliativi. Credo però che si debba riflettere sul proliferare di questi tentativi, ascoltare questa esigenza diffusa. Ritengo che sia indispensabile mettere in rete le azioni e, soprattutto, agire coralmente e contemporaneamente sia dal basso che dall’alto. Senza una compresenza di forze in campo è impossibile raggiungere risultati effettivi e, ciò che più conta, duraturi.

Come credi, dunque, che il Progetto Mandrione possa davvero modificare in positivo le cose, a partire dall’area in cui si sviluppa e va a incidere?

Daniela Bigi: Il progetto non nasce con questa volontà, né con questa ambizione. Non vogliamo incidere sul Mandrione, al massimo possiamo contribuire ad un più complessivo progetto di salvaguardia e valorizzazione. Il nostro obiettivo è dentro l’arte ed è talmente determinato e autentico che inevitabilmente avrà una qualche ricaduta, ma non ci arroghiamo alcun ruolo specifico rispetto alle politiche dell’area nel suo complesso.

Come ti sembra che Roma – città dell’antico splendore archeologico e storico e di un certo mantenimento di status quo- risponda davvero di fronte alle proposte del Contemporaneo?

Daniela Bigi: Roma ne ha un bisogno disperato, ma non lo sa. Non si è lavorato in modo costante sui valori culturali della contemporaneità. Il contemporaneo fa paura a tanta parte del mondo politico, perché non abbiamo, come paese, un’educazione adeguata per comprenderlo. Però è evidente come il desiderio di capire, di vivere la cultura artistica del presente o del recente passato, sia sempre più esteso. Lo possiamo dedurre da tanti fatti. La città è pronta, nel senso che il suo bisogno è reale. Si tratta solo di trovare nuove modalità per raggiungerla.
Innanzitutto, cominciando ad essere più credibili, a partire proprio dagli attori del sistema artistico contemporaneo.

Esiste, secondo il tuo pensiero critico, un Codice italia e se sì in cosa lo riassumeresti?

Daniela Bigi: Il discorso è estremamente importante, per la cultura italiana direi che si tratti addirittura di una questione di importanza capitale, pertanto credo siano necessari approfondimenti specifici. Si rischierebbe troppo facilmente di finire nei territori melmosi del marketing, il che mi sembrerebbe fortemente riduttivo sia per la nostra storia che per il nostro presente.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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