Lucian Freud, l’artista dei corpi, della verità nuda, ad alcuni anni dalla sua scomparsa

Lucian Freud, Annabel Sleeping, 1987-88

Il 20 luglio del 2011 se ne andava Lucian Freud, l’artista dei corpi: di un espressionismo iconico poderoso, capace di scuotere le coscienze del suo tempo e di tanti altri a venire.
Di lui abbiamo raccontato appena apprendemmo della sua scomparsa e siamo qui a ricordare nuovamente la personalità di questo protagonista della pittura in questa sorta di Rewind…

Uomo dal carattere non facile, dalla vita intensa – più matrimoni, tanti figli, legittimi o meno, veri e presunti – e votato all’arte, Freud era nato a Berlino nel 1922 da famiglia ebrea culturalmente ben attrezzata: il padre austriaco, Ernst L. Freud, era architetto, la madre Lucie artista e il nonno paterno era il famoso e ingombrante Sigmund Freud. Chissà che da lui non abbia ereditato la capacità di entrare nelle pieghe nascoste, spesso inconfessabili, dell’animo umano… tanto da restarne toccato per sempre… Ma andiamo con ordine.

Lucien ebbe in Londra la sua città d’elezione; dal 1933, durante l’ascesa del nazismo, i Freud vi riparano e la nuova Nazione, che li protesse, li naturalizza qualche anno dopo.

Il giovane, 29enne, è presto celebrato: nel 1954 ha, infatti, l’invito alla XXVII Biennale di Venezia, dove si contenderà la palma dei più grandi della Gran Bretagna con Ben Nicholson e Francis Bacon.

Proprio l’incontro con quest’ultimo sarà determinante per Freud che farà tesoro della lezione del collega – più adulto di lui di 13 anni e già molto noto -, traducendo le tensioni e le torsioni interiori dell’amico in figurazione personalissima: più dettagliata ma altrettanto dura, spietata, disturbata e disturbante; la frase di Bacon “Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito” ben si attaglia, a suo modo, anche a Freud.

Attratto da artisti dal forte segno pittorico e dal linguaggio introspettivo e realistico, onesto sino all’impietoso, guarda, quindi, oltre che a Bacon, ad artisti come Edward Hopper, del quale sembra apprezzare la silente, straniante immobilità dei personaggi e quella sospensione spaziotemporale che pone le sue panoramiche nell’inattuale, quindi nell’universale, nel perennemente contemporaneo: dove anche le opere di Freud dimorano…

Parallelamente, il nostro artista tedesco-inglese rivolge lo sguardo più indietro, a quel neorealismo d’impegno dell’Espressionismo tedesco, bollato dal Nazismo come “arte degenerata”: a Oskar Kokoschka, dunque, e anche George Grosz, Otto Dix, Conrad Felixmüller, Christian Shad, Karl Hubbuch, Wilhelm Schnarrenberger, Georg Scholz che sono, insieme alla pittura di Camille Corot – quella delle figure immaginate, più indagate psicologicamente –, punti di riferimento metabolizzati nella sua ricerca; vi si scorge una finestra sulle volumetriche, calibratissime, reiterate composizioni di Paul Cezanne e sulla lucidità e sulla disanima di un Jan Vermeer. Tutto ciò si sovrappone e sembra farsi materia portante del suo colore denso e del suo segno doloroso che si affaccia sul suo mondo più profano.

Disse:

“Voglio che la pittura sia carne”.

Così fu. Tanta carne, eccedente e cadente, oppure quasi disseccata, di animali domestici carenti di vitalità, di giovinezze inconsapevoli o malsane, di spossatezze dopo l’amplesso, di vecchia al termine della notte; di ritratti quasi farseschi, di sodali e committenti ai quali e dei quali non nascondere nulla, a costo di far(si) male. Riesce a rendere persino la giovane e bellissima Kate Moss, supermodella e sua amica – da lui ritratta e a cui tatuò sul fondoschiena degli uccelli da lui disegnati -, un essere fragile, lontana anni luce dal Fashion e dai riflettori e schiacciata da perdizioni chimiche e frenetica superficialità.

La sua crudezza trova i nervi scoperti della cronaca e da lì della Storia, della pelle più vera occultata sotto un primo strato di borghesissima reticenza. Freud operava in quell’indistinto confine tra realtà e verità ma la differenza la conosceva bene e la sapeva proporre; considerò, infatti:

“la Verità è un elemento di rivelazione”…

Aveva ragione. Era e la rilanciò come un palesamento inclemente ma, anche, con un accennato sprazzo di intensa empatia: di chi non giudica da fuori ma è parte di quell’universo – e in questo ci ravvedo qualcosa di Toulouse-Lautrec… – che, volente o nolente, è chiamato a testimoniare. Come? Con colori, magma ribollente, contorni e dettagli che hanno fatto e creato figure e scuola. Certamente, tanti bravi o cattivi pittori figurativi italiani, e molti YBA, più di tutti Jenny Seville, ma anche, a suo modo, Cecily Brown – per una rude, sfaldata veemenza che si fa carnale, come carnale è la rudezza di Freud – si sono nutriti della lezione del nostro. Essa diede luogo, con sodali come Bacon, Hockney e altri, a un rinnovamento della pittura che terrà testa anche a una sua marginalizzazione negli anni Settanta – brodo di altre teorie, di concettualismi e dematerializzazioni dell’opera –, uscendone rafforzata meno di un decennio dopo. Marcando, anche, nonostante il suo essere profondamente, matericamente pittura-pittura, non solo un’attenzione ma un vero legame con il linguaggio fotografico.

Era uno spirito irrequieto, Lucian, ma un artista sicuro della sua arte e della sua capacità di dover “essere coraggioso, tenero, libero di spirito e capace di mettere in dubbio tutto”, come ogni grande artista dovrebbe voler e saper fare. La Storia dell’Arte, rispetto al Sistema dell’Arte, non ne è poi così piena.

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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