Trovata una sega! Taurino racconta Livorno, Modì e lo scherzo del secolo.

«Ho trovato una nave che salpava, ed ho chiesto dove andava: nel porto delle illusioni, mi disse quel capitano. Terra terra, forse cerco una chimera..» Livorno. Terra di anarchici, e di cialtroni di genio, intimamente malinconici eppure capaci di volgere in crassa e pungente ironia letteralmente qualsiasi cosa. Se avesse una voce, sarebbe quella sofferta di Piero Ciampi, che la descrive così.

Non a caso, sono queste le parole che Antonello Taurino sceglie per chiudere il suo “Trovata una sega!”, ed è una chicca su un testo che più labronico non si potrebbe, estremamente ironico ma anche profondo.

Ne cercano di chimere, i livornesi. Nella pigra estate del 1984, una in particolare:  È il centenario della nascita del figlio più celebre, Amedeo Modigliani, partito ragazzo dalla sua città sentita così stretta e provinciale, per andare a dare del tu, a Parigi, a Picasso e Brancusi, ubriacarsi d’assenzio e diventare Modì – che suona come maudit, maledetto.

A Livorno circola da decenni una leggenda. Nell’estate del 1909, Modì è tornato nella città d’origine, e si è recluso in una stanza in affitto a scolpire alcune teste. Deriso dai vecchi amici per il risultato, le avrebbe gettate nel Fosso Reale.
Sono quelle teste che il comune di Livorno sta cercando, in quel giugno – gli occhi del mondo puntati addosso – per costruire una mostra che rivaleggi con quelle che a Parigi, New York, Tokyo, si dedicano da tempo all’artista.
E’ la storia di questa ricerca che Taurino racconta, su un palcoscenico insolito: il cortile della Libreria Pagina 18 di Saronno.

Nei giorni in cui i teatri riducono i cartelloni, o si preparano alle nuove stagioni, è l’intraprendenza di librai indipendenti, che non smettono di credere all’importanza di fare cultura, a inventare gli spazi e le occasioni perchè ciò avvenga, creando situazioni di qualità con una buona dose di coraggio a cui va reso merito.

Così, con un tavolo, un paio di sedie e un videoproiettore, il varesotto diventa la Toscana, che si affanna a dragare il Fosso in cerca delle teste. Inutilmente, parrebbe, mentre sognatori e scettici si accapigliano e il celebre Vernacoliere titola, appunto “Trovata una sega!”

Ma siamo pur sempre a Livorno, e l’occasione è troppo ghiotta perchè tre ragazzi non la sfruttino per farsi una sonora risata in faccia al mondo intero.

Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Guarducci, vent’anni, si armano di Black & Decker e della pietra di un marciapiedi, e nel cortile di casa scolpiscono una testa, per poi gettarla nei Fossi, pronti a godersi le espressioni dei concittadini non appena si accorgeranno dello scherzo, naturalmente.

E infatti, il giorno dopo, il 24 luglio, la testa viene ripescata. La città ha trovato la sua chimera, è in visibilio.

Ma i più sconvolti sono i tre ragazzi: quella testa non è la loro.

Tra lo stupore collettivo, le teste ripescate, alla fine, saranno tre. La seconda è quella dei giovani, che ora aspettano solo il momento in cui verranno smascherati.

E invece. Non solo Vera Durbè, curatrice della mostra, ma anche quasi tutta la critica italiana, incluso Giulio Carlo Argan – l’uomo sui cui manuali generazioni di studenti hanno imparato la storia dell’arte – è concorde: Le tre teste sono, inequivocabilmente, degli straordinari Modigliani, la seconda anzi è quella che per finezza di tratto è più facilmente identificabile. I tre sono sbigottiti; un mese più tardi si consegnano, fornendo le prove della burla, dopo essersi gustati la parata di personaggi noti e istituzionali, da Spadolini a Mastroianni, che investe la città.

Ma Livorno ha la sua chimera e non è disposta a lasciarla andare. Le autorità non ci credono, al punto che i ragazzi devono rifare una copia della scultura in diretta tv. E così fanno. Ma ancora c’è chi non vuole crederci. E le altre due? Ci si chiede È a questo punto che si fa avanti Angelo Froglia, pittore e portuale, che afferma di essere l’autore delle altre teste: si tratta – dice – di una istallazione collettiva, con l’inconsapevole partecipazione di tutta la cittadinanza.

Per la critica italiana e il comune è un ecatombe, tamponata goffamente con dimissioni a pioggia di brevissima durata.

Non basta: nove anni più tardi, Froglia cambierà versione: è stato incaricato di costruire le teste da due funzionari stessi dell’ufficio cui fa capo la Durbè. Lo dice quando però, ormai, i committenti sono protetti dalla prescrizione.
Ma allora chi è stato il migliore? I due burloni del comune di Livorno committenti del Froglia? I ragazzi che hanno inconsapevolmente sventato qualcosa di più grande e complesso? O la ditta di trapani, che in capo a pochi giorni usò l’immagine della falsa testa per una pubblicità che recitava «Facile essere bravi con Black & Decker»?
Il racconto è preciso, coadiuvato da foto d’epoca, di vicende in cui non c’è bisogno di inventare nulla, perchè all’intrigo e alla farsa ha già provveduto la realtà, come il migliore dei drammaturghi.

Un lavoro di inchiesta divertente e divertito, costruito con intelligenza e un abile uso dello spazio scenico, tanto più insolito.

Taurino è solo in scena, e può mostrare tutta la sua vulcanicità, che aggiunge il tocco di classe a un lavoro – già premio OUTIS – che non è brevissimo, per essere un monologo, ma non si direbbe, perchè scorre con la scioltezza piacevole delle pièce di valore.
Quando l’ironia è vera, però, non è mai fine a sé stessa.
Non ci si limita a ridere, infatti, e a rimanere basiti dalla assurdità della vicenda: a prestarci attenzione, non si riesce a non concentrarsi sugli spunti di riflessione che offre.

Il ruolo dell’artista, in primo luogo, cioè colui che è chiamato a «scegliere tra una vita di genio e sofferenza, e una di felice mediocrità. Davvero vi illudete di poterle avere entrambe?»
Ma soprattutto, il modo in cui l’arte è vissuta e pòrta. Difficile non riflettere quando si viene a sapere che le vere teste di Modì, ritrovate anni dopo a casa di un carrozziere inconsapevole di averle ereditate, e finalmente scientificamente dimostrate come tali, non hanno valore: La critica degli uomini incravattati, burlati da tre giovani scavezzacollo, si è rifiutata di riconoscere il proprio errore.

La sintesi, malinconica e schietta, da vero livornese ancorchè rinnegato – che avrebbe indubbiamente riso molto dell’intera vicenda – la trasse, lungimirante, lo stesso Modì all’inizio del secolo scorso: «L’importante non è mai dipingere. È il valore che viene dato a ciò che dipingi.»

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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