Che cosa abbiamo capito dell’arte contemporanea italiana dopo 120 anni di Biennale? Ci sono domande facili e risposte difficili. A riguardo la 56esima Esposizione Internazionale d’arte dal titolo All the World’s Futures, diretta da Okwui Enwezor, non si pone alcuna domanda né azzarda una qualche risposta.
Attitudine dichiarata dallo stesso curatore durante la conferenza stampa, in cui alla domanda sulla poca presenza di artisti italiani ha risposto semplicemente:
“Non ho una risposta. Il padiglione Italiano ha tanti artisti”
La risposta sembra essere un avvertimento ad avere più attenzione, a non ripiegarci in noi stessi, ponendoci davanti alla realtà più orribile. quella di affidare al solo padiglione italiano la maggior presenza di artisti nostrani. Più chiari di così!
Se la sentenza di Enwezor ha lasciato trapelare una certa vulnerabilità, di una cosa il curatore è sicuro: bisogna partire dalla storia.
Come l’ Angelus Novus di Paul Klee che “ha il viso rivolto al passato” mentre una “tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro”, anche Okuwi guarda alle scorse edizioni della Biennale, come quella del 1974, in cui in un atto di solidarietà Venezia dedicò una parte della programmazione al Cile; paese che in quegli anni fu offeso dal colpo di stato a carico del generale Pinochet. Evocando l’immagine dell’angelo congelato sulla soglia del cambiamento, il direttore della 56esima Biennale sembra voglia alludere alla convinzione di modernità liquida di Zygmut Bauman secondo cui “l’unica costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza”.
La posizione inequivocabile del curatore nigeriano viene da subito fraintesa dalla presenza di poche e selezionate rappresentanze italiane, prima fra tutte Fabio Mauri ornato dall’epitaffio “usato sicuro” da Renato Barilli – sul webmagazine “Artribune” – e da chi come lui è pronto a lanciarsi senza colpo ferire in critiche esasperate. Come se la colpa di Mauri fosse la sua straordinaria natura poetica o che se Okwui Enwezor non abbia chiamato artisti giovani per indispettire i salotti della critica italiana. Rimanendo nel tema della mostra, si potrebbe suggerire a tutti gli addetti ai lavori di accendere un crowdfounding, questa volta per risolvere la nostra assenza nelle maggiori fiere e manifestazione d’arte nel mondo.
Come questione ultima, ma non per importanza, per coloro che definiscono la presenza delle opere di Fabio Mauri quale azione commerciale è d’obbligo ricordare che negli ultimi anni la figura del Maestro ha acquisito un ruolo da protagonista nel panorama internazionale, basti ricordare: la sala dedicatagli a Kassel per dOCUMENTA 13 (2012), la grande mostra di Buenos Aires (Fundación Proa 2014), la prima importante retrospettiva newyorkese, appena conclusa, presso la prestigiosa Hauser&Wirth, o per meglio semplificare la lezione <<E’ una questione di numeri>> come afferma in conferenza stampa lo stesso Enwerzor.
Più interessante invece sarebbe assimilarne il racconto vastissimo e apparentemente complesso di All the World’s Futures, capire che ruolo hanno le opere di Fabio Mauri all’interno dell’esposizione, penetrare la metodologia del curatore che invita ad abbandonarsi nel piacere di ciò che capiamo o che ci piace. L’impressione è quella che il visitatore della Biennale declini un po’ di frenesia a favore di un atto meditavo sulle opere, la speranza è che la percezione affidata ai sensi aiuti a formare un’opinione più lucida e articolata non solo della Biennale, ma del futuro che ci aspetta.
Si parte superando la soglia del Padiglione Centrale dei Giardini, nel quale inquieto, pericoloso, con una rispettabilità ed un contegno raro, appare solenne Fabio Mauri. Le opere, marchiate dalla parola the end richiamano in vita una fine che non è apocalittica, che non è la fine della storia, che non è la fine del niente neanche della grande scalinata che troneggia nella sala, ma è la spina nel fianco della società, una Fine che arranca nel trovare un inizio, ieri come oggi. Le condizioni storiche si ripresentano con altre sembianze, così torna alla Biennale -per la quale era stato realizzato nel 1993 – Il Muro Occidentale o del Pianto, che dall’evocare la tragedia delle deportazioni diviene metafora di tutte le diaspore. Le valige impilate sull’attesa del cambiamento ci ricordano che nella crisi del secolo breve vestiamo nuovamente le scarpe comode per l’esodo, in cui c’è sempre qualcuno in viaggio perché ieri qualcun altro ha preparato la valigia. Le numerose prospettive da cui si possono osservare le opere, la loro dimensione e la loro assialità, attribuiscono un potere centrifugo allo spazio.
La voce che risuona per la sala è quella dell’amico Pasolini che recita il lavoro di tanti anni fa con un titolo che qui non poteva mancare: Cos’è il fascismo?. L’arte quando è così intensa non ha bisogno di travestitismi, ha bisogno di una giacca, una cravatta ed un tono pacato. Tuttora rimango sedotto da quell’anticamera dove si consuma l’atto dell’attraversamento. Non parlo qui della linea di demarcazione che separa due entità, bensì del punto dove questa linea è interrotta per concedere il passaggio, per regolare lo scambio che ci attende nell’Arena.
“Dobbiamo abituarci ad una certa ambiguità ed a una ambiguità certa”
Edgar Morin, Filosofo e sociologo francese
Cuore pulsante e propulsore della mostra è l’Arena, realizzata dell’architetto ghanese- britannico David Adjaye; essa sposta l’attenzione dallo spazio fisico a quello dei flussi comunicativi. Il nucleo fondamentale degli interventi ospitati sarà la lettura di Das kapital di Karl Marx. Nel corso della Biennale attori, intellettuali studenti e persone del pubblico di nazionalità differenti saranno invitati a dare un contributo al programma di letture che saranno trasmesse dall’Arena nelle sale circostanti. L’uso dello spazio quale dispositivo di diffusione di codici differenti, permette l’istantanea creazione di micro comunità grazie al riconoscimento della lingua che di volta in volta prenderà voce. Lo spazio in questo modo si confronta sui temi dell’inclusione, propri degli anni ’90 quando la città diventa per l’appunto arena di scambi e incontri basati sull’esperienza dell’altro.
Il coinvolgimento del pubblico sul piano visivo e uditivo continua con un secondo livello, intitolato Vitalità, un momento di riflessione sulla durata epica, la quale compone la mostra come un palcoscenico in cui artisti, performer e registi sono stati chiamati a rappresentare, installare e a mettere in scena i loro lavori.
Il problema qui non è allargare i limiti dell’arte, come è stato nel decennio degli anni ‘60 e ‘70, ma mettere alla prova la resistenza dell’arte all’interno del campo sociale.
L’intervento del curatore si realizza nel diffondere linee di fuga individuali o collettive nelle quali l’artista crea micro utopie o situazioni disturbanti, come quelle create dai flash.mob di improbabili black block pentiti a tal punto di da inginocchiarsi in pentimento davanti la Biennale.
Qui e ora l’opera contemporanea si accorda con lo spettatore per modalità e tempi.
Nella terza parte del progetto curatoriale di Enwezor chiamata il Giardino del disordine, il percorso diventa un palindromo, che si distribuisce tra il Padiglione Centrale e i Giardini, nonché nelle Corderie e nel Giardino delle Vergini.
Questo dislivello geografico, politico ed economico, comprende opere che sono state chiamate ad “esplorare l’attuale stato delle cose”, tutto in un continuo mutare di linguaggio. Le “piccole antologie” presenti all’Arsenale…; per citarne una, Eat / Death di Bruce Nauman, immerso nel campo fiorito di coltelli Nymphéas di Adel Abdessemed; come pure i singoli progetti dislocati negli spazi della Biennale, prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici, in continua polemica con le tendenze avvertite nel presente. Ne è un esempio l’intervento di Raqs Media Collective presente nel Giardino dei Padiglioni, in cui, nelle grandi sculture presentate dal collettivo, lo spazio si costruisce intorno al vuoto degli arti, dei volti e quindi dell’identità: descrizione di uno stato lasciato alle citazioni di Geoge Orwell presenti sulle basi. Se questo non dovesse bastare a metterci in guardia sulle sorti del nostro futuro, negli spazi delle Corderie è possibile compiangere le macerie di un arcobaleno ad opera di Katharina Grosse.
Info Biennale
- Dal 9 maggio al 22 novembre 2015
- Biennale di Venezia
- Padiglione Italia e Giardini della Biennale
- Orari: dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18
- Info: http://www.labiennale.org/it/arte/esposizione
Roberto D’Onorio (1979) vive e lavora a Roma. Inizia la sua carriera artistica collaborando con la cattedra di Fenomenologia delle Arti Contemporanee di Cecilia Casorati all’Accademia di Belle Arti di Roma e nel 2010 con Cecilia Canziani e Ilaria Gianni per la NOMAS Foundation. Nello stesso anno affianca Anna Cestelli Guidi in occasione della Biennale Fluxus (Auditorium Parco della Musica, Roma). Nel 2012 lavora presso la Galleria Marino di Giuseppe Marino, Roma. Dal 2013 collabora con la Galleria 291est, Roma, rivestendo i ruoli professionali di Curatore e Responsabile Management.
lascia una risposta