Intervista a Giovanni Gaggia, sul filo della Memoria.

Giovanni Gaggia - QUELLO CHE DOVEVA ACCADERE ph. Cristina Villani

Noi siamo la nostra memoria,
noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti,
questo mucchio di specchi rotti.
(Jorge Luis Borges)

Un salto indietro di trentacinque anni ci porta al 1980, quando la città di Bologna, in pochi giorni,  è stata protagonista direttamente e indirettamente di due tra le più sanguinose stragi civili del nostro paese ancora avvolte da un mistero che offende profondamente noi cittadini italiani. In ordine temporale, Ustica il 27 giugno e poco più di un mese dopo, il 2 agosto, la Stazione Centrale.

Questa volta è Giovanni Gaggia, artista marchigiano di Pergola (PU), che ci accompagna nel viaggio tra arte e memoria riportandoci a quel cielo notturno sul Mediterraneo per mantenerne vivo il ricordo.

Lo incontriamo a Bologna, alla Galleriapiù di Veronica Veronesi, a pochi passi dal MAMbo, proprio il giorno in cui molte iniziative ci aiutano a non dimenticare.

Chiediamo a Giovanni: ripercorriamo insieme le tappe di questo tuo lavoro intitolato INVENTARIUM,  raccontaci come ha avuto inizio questa tua esperienza di artista che vuole testimoniare a suo modo ciò che è accaduto esattamente 35 anni fa quando, come racconta la stessa Daria Bonfietti, Presidente dell’Associazione dei Parenti delle Vittime: “un aereo civile, il DC9 Itavia, è partito da Bologna per raggiungere Palermo ed è stato abbattuto; è precipitato nel mare di Ustica portando con sé la vita di 81 cittadini italiani innocenti”.

“L’inizio non può che essere quel 27 giugno 1980 quando l’aereo diretto a Palermo precipita in mare in circostanze che sulle prime appaiono così misteriose che si parla immediatamente di cedimento strutturale.

Poi avremmo saputo quale ignominiosa omertà dei corpi ufficiali dello Stato impedì agli italiani di sapere fin da subito la verità, ovvero che l’aereo fu abbattuto in circostanze ancora tutte da chiarire durante una battaglia aerea nel cielo sopra Ustica.

Non sappiamo molto di più dopo 35 anni.  Il mio progetto invece è iniziato 5 anni fa, sulla spinta  della grande forza dei parenti delle vittime e della lotta per arrivare alla verità.

La mia prima azione, infatti, è stata apporre una traccia ematica sulle opere, sangue vero ma anche mera finzione perché questa materia è forza vitale invisibile proprio quando scorre nelle vene. A me interessava citare quella tipologia di sangue e il cuore pulsante di queste persone.”

La traccia ematica è spesso presente nella tua poetica, Christian Boltanski  ha usato 81 lampade che pulsano per l’istallazione permanente al Museo per la Memoria di Ustica che tu hai visitato…

“Effettivamente lo stimolo per arrivare alla produzione della prima parte di questo progetto nasce proprio dalla visita al Museo per la Memoria di Ustica e in particolare dopo avere visto l’installazione di Boltanski; l’artista francese rispetta con delicatezza il privato delle persone riponendo in casse coperte da un drappo nero gli oggetti che sono stati recuperati in mare, gli stessi che io riprendo e disegno attorno ad un cuore pulsante.

Sono disegni classici a matita che si rifanno tecnicamente alla mia formazione alla Scuola del Libro di Urbino e alla tecnica classica dell’incisione.

Segni che si accavallano secondo la vecchia tecnica della puntasecca e che diventa una sorta di tatuaggio sulla mia pelle perché è un disegno sofferto, meditato, che nel tempo dà modo al pensiero di concentrarsi sulla storia, sulle persone che l’hanno vissuta, che ho incontrato e che stanno ancora lottando.”

Il cuore, il sangue, il disegno. A tutto questo aggiungi la performance e il ricamo.

“Sono questi gli elementi che compongono il mio fare; la genesi del mio lavoro parte sempre dall’azione. Anche questi disegni sono stati concepiti dopo una performance che feci nel 2008 alla fabbrica Borroni di Bollate durante la quale tre cuori venivano aperti in pubblico da altrettanti uomini e poi ricomposti con ago e filo da una donna.

Ecco, questo è il senso profondo del mio ricamo,  sutura di ferite e di sofferenze patite. Per quei tre cuori furono utilizzati fili di colore differente, nero, argento e oro, a ricordare il percorso di ascesa dall’oscurità alla luce secondo le antiche scuole alchemiche.

Il cuore è sempre presente nel mio lavoro perché si ricollega all’essere umano ed è metafora di vita. Aperto assume la forma di una farfalla,  da qui il titolo Ali Squamose di quel lavoro, a simboleggiare l’anima che lascia il corpo al momento della morte fisica. Parto, quindi,  dalla una forte materialità rappresentata dal sangue e dal cuore per giungere alla verticalità dell’ascensione verso luce.”

Quali sono le opere che costituiscono il percorso in memoria della strage di Ustica?

“Oltre ai sei disegni su traccia ematica e all’arazzo con ricamata la frase QUELLO CHE DOVEVA ACCADERE,  c’è la registrazione del confronto pubblico che si è svolto a Palermo nel quale Daria Bonfietti conferma l’importanza dell’arte nella vicenda di Ustica proprio per la forza di un linguaggio che può arrivare a più persone aiutando la memoria a mantenersi viva.

C’è poi la stanza del 9, un numero che ricorre costantemente nella storia di Ustica (il DC9, il 27, le 81 vittime, etc.); ho deciso di costruire una piccola performance mettendo a disposizione 81 fogli firmati e numerati che riportano il numero 9 e un taccuino sul quale il visitatore può lasciare alcune parole, una frase,  portando con sé uno dei fogli facendosi carico idealmente di una  delle persone che erano sull’aereo.”

Il finissage qui a Bologna coincide con la conclusione del ricamo che tu avevi portato a Palermo…

“L’opera è stata progettata e presentata per la prima volta a Palermo con l’intenzione di arrivare a Bologna in una sorta di volo di ritorno come metafora di vita.

A Palermo ho lavorato alla Cavallerizza del Palazzo Costantino-Di Napoli, un palazzo meraviglioso, abbandonato, che mi ha ricordato l’interno di un aereo.

Nella parte terminale della sala in cui era allestita la mostra ho deciso di installare l’arazzo, che si compone di due tessuti diversi ma entrambi di colore grigio,  uno lucido che richiama il  metallo e ne costruisce la cornice, l’altro opaco sul quale ho ricamato la frase che Daria Bonfietti mi disse al museo di Bologna difronte all’aereo e che ripete costantemente.

Quelle parole hanno per me un’accezione di vita ed è per questo che ho deciso di portarle a Palermo e di chiudere proprio a Bologna ricamandone l’ultima parte.

Il mio messaggio di vita è che quello che doveva accadere è  giungere alla verità e spero che questo succeda. E’ comunque una frase che lascia aperti vari livelli di lettura diversi e varie ipotesi.”

Tutto questo lascia spazio anche a molte domande che non hanno ricevuto risposta nemmeno dalla desecretazione degli atti ufficiali, azione che aveva dato molte speranze ai parenti delle vittime. Tu cosa vorresti seguisse a questa tua testimonianza, l’arte può fare qualcosa a riguardo?

“Vorrei che si sapesse da chi è stato lanciato quel missile e perché, credo che lo Stato debba porsi l’obiettivo della verità in nome dei propri cittadini e della storia nazionale.

Questo progetto, così come quello successivo, che in questo periodo è esposto a Roma, ha reso la mia posizione nei confronti dell’arte ancora più netta e definita.

Per me l’arte è anche politica e di conseguenza non posso esimermi dal raccontare certe storie.  Credo sia un mio dovere ma anche la mia forza. La società non ha molta considerazione della figura dell’artista, spesso considerato un perditempo che insegue una creatività sognante.

La presa di coscienza mi ha regalato un ruolo nella società e mi dà una forza enorme, mi svela l’utilità delle mie azioni.”

“…infatti citi Regina José Galindo quando dice:

“L’arte non può cambiare il mondo, ma le singole persone sì”

 “Certo e torno al momento in cui ho acquisito coscienza del mio dovere di sensibilizzare in maniera forte lo spettatore stimolando la consapevolezza e la presa di coscienza su alcune tematiche che riguardano l’ingiustizia e la violenza, questa è la mission del mio essere artista.

Cito Regina José Galindo perché la conosco bene avendo avuto modo di seguire una sua residenza vivendo con lei una settimana molto intensa. Inoltre,  proprio lei ha sostenuto la  mia ultima performance svoltasi a Roma qualche mese incentrata sul tema della violenza nel mondo in cui 14 storie di uomini e donne sono diventate paradigma dell’azione coercitiva del potere e della società sui singoli individui.

Ho trattato questo argomento usando degli abiti come metafora ed alcuni sono arrivati dal Guatemala inviati proprio Regina. Il risultato dell’azione (visibile alla galleria Rossmut  di  Roma fino al 27 luglio) è accompagnato da un libro-catalogo che racconta l’esperienza e che contiene nelle ultime pagine una poesia di Regina dedicata alla madre.”

Tu hai anche un altro ruolo nel mondo dell’arte, legato alla tua casa che accoglie i progetti di altri artisti…

 “…è vero, nel 2008 ho fondato un’associazione culturale per creare un tavolo di discussione propositivo in relazione al sistema dell’arte italiana.

Ho aperto le porte di casa mia ad altri artisti, a curatori, ad appassionati d’arte, quasi come una performance, una grande sfida, un momento di incoscienza totale.

Tra le strutture che hanno portato freschezza all’arte italiana, il no profit ha dato un contributo importante puntando tutto sulla ricerca e senza interessi di tipo commerciali. E’ questo lo spirito con cui una volta al mese ospito uno o più artisti che possano lavorare in piena libertà e autonomia.”

Info

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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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