Juan Muñoz. Double Bind & Around. Dall’HangarBicocca alle stelle

Sebbene la parabola di Juan Muñoz si sia bruscamente interrotta nel 2001, allorquando all’età di 48 anni fu colpito da un infarto, i vent’anni di attività intensa del madrileno hanno lasciato un innegabile segno nel panorama artistico ispanico e internazionale. Hanno restituito nuova linfa alla pratica, e alla concezione, della scultura, rintroducendo la figura umana, all’epoca parecchio bistrattata, in uno scenario che, negli anni Ottanta, era ancora fortemente dominato dall’Arte Minimale e dall’Arte Povera. Con un’adolescenza alquanto burrascosa, che di sicuro non faceva ben sperare sul suo futuro, l’episodio che doveva definitivamente segnare il suo destino, fu, invece, l’inizio di un nuovo e certamente più stimolante percorso. Perché l’espulsione dalla scuola, poiché troppo ribelle all’età di dodici anni, gli consentì di entrare in contatto col critico d’arte e poeta Santiago Amón, penna di “El País”, nonché fondatore del quotidiano “Nueva Forma”, pubblicato dal 1966 al 1975, che influenzò enormemente il giovane Juan. Tanto che, dopo i primi studi di architettura, all’età di 17 anni si trasferisce a Londra insieme al fratello Vincente, dove approfondisce la storia dell’arte frequentando assiduamente la National Gallery, la Central School of Art and Design (alla quale accede grazie a una borsa di studio) e un corso di incisione al Croydon College of Design and Technology, nonché il Pratt Graphic Center di New York, dove vive per ben dodici anni, per ritornare dopo nuovamente a Madrid, facendo prima una sosta di circa un anno a Roma.

Le quindici opere, tra installazioni e sculture, raccolte all’HangarBicocca nella mostra antologica Double Bind & Around, ripercorrono quindi le principali tappe della carriera artistica di Juan Muñoz. E, con estrema naturalezza, riattivano l’intento primigenio dell’artista stesso di sollecitare la percezione dello spettatore, utilizzando lo spazio e il silenzio alla stessa stregua di materia. Ogni lavoro sembra che sia stato appositamente ideato dall’artista per l’HangarBicocca, tanto è fluida la narrazione dell’intera esposizione. Comunque, come il titolo stesso dell’antologica suggerisce, il tutto ruota intorno alla più imponente e più articolata installazione realizzata da Muñoz: Double Bind, originariamente ideata per la TurbineHall della Tate Modern di Londra nel 2001.

Ciò che colpisce delle sculture, come delle installazioni di Juan Muñoz sono due aspetti: l’articolata semplicità e la vivacità del grigio, accompagnate dal caratterizzante anonimato che diventa universalmente riconoscibile, attraverso espedienti mutuati dalla tradizione artistica. Sì, perché le sue sculture installative, in fin dei conti, sono piccoli esseri, praticamente tutti uguali, atteggiati in un numero molto ristretto di posizioni, che sembrano tanti anonimi cinesini, con l’altrettanto anonima divisa, che ti blandiscono con loro sorrisino. È qui che scatta la trappola. Perché sono esserini che hanno in sé delle belle e buone stranezze, a partire dalle dimensioni, per continuare con l’assenza dei piedi e concludere con la loro espressione quasi ebete. Un anonimato reso ancor più anonimo dall’utilizzo del grigio. Ma ci sono alcune che sono più grigie delle altre e della altre meno grigie, dando così rappresentazione delle diverse sfumature di grigio. E quell’espressione ebete, in realtà è mutuata dalle sculture dei personaggi sacri medievali: quella deformazione del viso dettata dal fatto che dominando dall’alto della loro collocazione sulle facciate delle cattedrali, viste dal basso del fedele, acquisivano un’espressione rassicurante e accogliente, e perdevano i piedi, perché non visibili. Figure eteree quindi che escludevano dalle loro Sacre Conversazioni, l’adepto ancora non iniziato. Tutta questa spiritualità, finanche aulica e ieratica, è calata nella quotidianità, nel mondo reale (non dimentichiamo che le prime opere scultore furono delle ringhiere di balconi o delle scale, sospese nel nulla e che non portavano da nessuna parte, che evocavano una presenza nell’assenza della persona). Ecco allora gli impiccati, le Hanging Figures (Figure Appese), che traggono spunto da Mademoiselle La La au Cirque Fernando (1879), di Degas, che sono in realtà degli acrobati che con i denti rimangono aggrappati a una corda, sospesi nel vuoto. Attratto dal movimento e quindi dall’interazione tra le figure, realizza le Conversation Piece, gruppi di misirizzi in resina, con posture e pose il cui senso resta circoscritto al gruppo stesso, escludendo lo spettatore. Che con fare voyeuristico si avvicina alle sculture, attratto dal desiderio di capire, di scoprire quello che queste figure si stanno dicendo. Silenzio o suono, moto, sovvertimento percettivo, pure attraverso un fine uso di pattern geometrici e di ciò che è impercettibile, abilmente si fondono e danno consistenza a una potente rappresentazione. Perché Juan Muñoz guarda alla storia dell’arte (vedi i riferimenti stringenti con Degas), alla letteratura (in particolare Eliot, il cui poema The Wasterland è il titolo di un suo lavoro), ma non manca di buttare un occhio anche alla storia del suo paese (vedi Waste land, dove il nano/ventriloquo rimanda al dipinto Diego de Acedo, El Primo, di Velázquez, il nano funzionario di palazzo forse addetto a timbrare i documenti di corte).

Di indiscussa fascinazione sono tutte le opere esposte, ma, ovviamente, quelle di maggiore impatto e che riuniscono tutte le principali peculiarità artistiche di Juan Muñoz, sono Double Bind e Many Times. Di circa 1500m², la prima è un’installazione dove due silenziosi e vuoti ascensori, in moto continuo e costante, regolarmente mettono in relazione i tre livelli sui quali si sviluppa l’opera. Un’ampia distesa costruisce la sommità; su questa sono dipinti pattern geometrici ottici, che apparentemente sembrano tutti avere una profondità, in realtà solo alcuni sono forati. La base è invece caratterizzata da ambienti bui e tetri, inquietanti, anonimi e asettici, come quelli di un sotterraneo o di un parcheggio. Tra questi due livelli, si inframmezza quello medio, costruito come se fossero tanti primi piani di anonimi palazzi, animati da ambigue figure, di cui non è possibile capire cosa stiano realmente facendo, in quali attività siano impegnate. Furtivamente compiono inspiegabili azioni o, catatoniche, sembrano osservare lo spettatore. Serrande chiuse, porte semiaperte oltre le quali è impossibile vedere l’interno, condizionatori d’aria, completano questi tetri cortili. Many Times invece è uno dei maggiori gruppi scultorei realizzati da Juan Muñoz. Una foresta di figure, tutte con lo stesso ghigno e la stessa testa, che si differenziano per pose e atteggiamenti diversi. Sembrano interagire tra loro, ma ognuna è autonoma e indipendente. Lo spettatore, nell’attraversarle, alla fine diviene anch’esso uno tra i tanti, anonimo tra gli anonimi.

Info mostra

  • Juan Muñoz – Double Bind & Around
  • Fondazione HangarBicocca, via Chiese 2 – Milano
  • Periodo: dal 9 aprile al 30 agosto 2015
  • Ingresso: gratuito
  • Orari: da lunedì a mercoledì chiuso; da giovedì a domenica 11,00-23,00
  • Info: T (+39) 02 66 11 15 73 – F (+39) 02 64 70 275 – info@hangarbicocca.org
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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