Damián Ortega e un gran Casino. Scompone e guarda dentro le cose e in un Maggiolino Volkswagen

Damián Ortega, Casino

Chi non ha mai smontato un gioco per “guardarci dentro”, per comprenderne il funzionamento e carpirne l’anima? È con questa curiosità che Damián Ortega sembra procedere nella realizzazione delle sue sculture e installazioni. Molte delle quali costruite con quegli object trouvé prelevati e sradicati dal quotidiano, scomposti, sezionati, aperti e spartiti, per esaminarne i possibili misteri che li compongono e li avvolgono. E, al contrario di come solitamente capita quando si smonta qualcosa di meccanico, a Damián Ortega non avanza mai alcun pezzo, ogni cosa ritrova la sua precipua collocazione e funzione, ricomponendone l’aura magica. Quell’apparente Casino (così il titolo della mostra, curata da Vincente Todolì), quel caos, è metodicamente scandagliato, ordinato e organizzato dall’artista messicano. Con atteggiamento dadaista, vuole rompere certezze con serie di gesti che tendono però ad avvicinare l’arte con la vita.

Nato a Città del Messico nel 1967, dopo aver precocemente abbandonato gli studi, il fruttuoso incontro con Gabriel Orozco e la partecipazione ai Friday Workshop (incontri informali, settimanali, organizzati nello studio di Orozco, che riunivano giovani artisti per discutere e tentare di superare lo stato di isolamento e di ritardo dell’arte messicana di quel momento), lo avvicinano alla pratica artistica, passando per le vignette satiriche pubblicate su diverse riviste e quotidiani nazionali, dove è forte l’influenza politica dei grandi muralisti messicani degli anni Venti. Attualmente diviso fra la sua città natale e Berlino, tra gli artisti delle scuderie della White Cube e Gladstone Gallery e partecipante alla Biennale di Venezia del 2003 e nel 2013, la produzione di Damián Ortega non guarda ad un unico media. Fotografia, performance, video, installazioni, sculture, il tutto percorso da una forte dose di ironia e senso dell’humor, dai giochi di parole e dai doppi sensi, decostruisce quindi la realtà per esplorare lo spazio e i processi di trasformazione della materia. E altrettanto molteplici sono i riferimenti rintracciabili nei suoi lavori, da quelli artistici del suo paese (le incisioni di José Guadalupe Posada, 1853-1913, precursore della pittura murale in Messico, o al disegnatore Manuel Ahumada) e non solo (come Marcel Duchamp, Chris Burden, Robert Smithson, Le Courbusier), ai B-movie, alla musica (Led Zeppelin), alla letteratura (Herman Melville, T.S. Elliot, Joseph Conrad), con lo sguardo, però, costantemente posato sulla cronaca.

Ad aprire il percorso, organizzato con diciannove opere che spaziano dagli inizi della sua carriera al 2013, è Controller of the Universe (2007). Di forte impatto emotivo, l’opera è solo apparentemente minacciosa. Perché l’esplosione di centinaia di utensili vintage da lavoro, pazientemente cercati dall’artista nei mercatini dell’usato, non minacciano affatto lo spettatore, perché lo spazio vuoto, lasciato libero al centro dell’installazione, lo mette, infatti, al riparo dai possibili colpi di questi oggetti contundenti. Che, con un’accelerazione centrifuga, si espandono nello spazio. È quindi il visitatore, allorquando si pone al centro, ad essere l’attivatore di questa ordinata deflagrazione: è l’uomo che innesta qualsiasi attività, il deus ex machina che controlla, risolve, complica, avvia reazioni a catena, umane come meccaniche, nell’attività produttiva come nella vita. Una sorta di istrice respingente dal quale, alla giusta distanza, si possono trarre benefiche opportunità. Quello stesso deus ex machina che innesca l’ipnotico effetto domino dei Nine Types of Terrain (2007): nove film in 16 mm che, traendo spunto dal testo del VI-V sec. a.C. The Art Of War di Sun Tsu, mostrano le formazioni tattiche descritte nel libro, attraverso una paziente disposizione di mattoni, di diversa foggia, su alcuni terreni di differente conformazione sui quali sorgeva il Muro di Berlino. Ma a fare la parte da leone in quest’atmosfera sospesa e di sospensione, di evocazione, di assenza e di vuoto, nonostante l’accumulazione di elementi, è The Beetle Trilogy che vede, come unico protagonista di diverse opere, il celeberrimo Maggiolino Volkswagen. Voluto da Adolf Hitler come auto del popolo, il Maggiolino diventa, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, simbolo della ripresa e, in Messico, è stato ampiamente utilizzato come taxi. Nonostante i lavori siano stati realizzati in momenti diversi e con tecniche, Damián Ortega li sente come appartenenti ad un unico corpus. Esposto anche alla 50.Biennale di Venezia del 2003, Cosmic Thing è la chirurgica separazione materiale di tutti i componenti dell’auto: sotto i nostri occhi viene trasposta in modo tridimensionale quella che è la rappresentazione grafica della vettura in un manuale delle istruzioni. Così, il maggiolino, schiuso e sospeso, sembra davvero aver aperto le ali e preso il volo. E, nonostante il suo essere smembrato, non trasmette assolutamente un senso di precarietà e di instabilità, anzi. Una saldezza e una forza interiore sembrano attraversarlo, tanto che si ha il dubbio che in qualsiasi momento possa ricompattarsi e sfrecciare via. Quella forza indomita che, infatti, caratterizza Moby Dick, una performance durante la quale Damián Ortega tentava, appunto, di domare e imbrigliare un novello Herbie. Escarabajo è il video nel quale l’auto sembra ripercorrere la successione della sua epica esistenza fino all’atto finale, che lo riporterà alla sua essenza di polvere nella fossa scavata apposta a Puebla, una delle ultime sedi di produzione del veicolo. Nascita e morte combaciano e si sovrappongono, chiudendo il ciclo vitale del Maggiolino. Sperando che la radio non riprenda all’improvviso a suonare (come in Noi e la Giulia).

Info mostra

  • Damián Ortega – Casino
  • Fondazione HangarBicocca, via Chiese 2 – Milano
  • Periodo: dal 5 giugno all’8 novembre 2015
  • Ingresso: libero
  • Orari: da lunedì a mercoledì chiuso; da giovedì a domenica 11,00-23,00
  • Info: T (+39) 02 66 11 15 73 – F (+39) 02 64 70 275 – info@hangarbicocca.orghangarbicocca.org

 

 

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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