‘A vita è nu muorz. Nando Citarella e le tammorre a Tor Sapienza.

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La vita è un morso”: il tempo di assaporarne il gusto –un istante- e tutto è già finito. Questo brevissimo aforisma, lanciato dal palco da Nando Citarella –guida e anima del gruppo di musica popolare campana A paranza de’ malandrini – a termine di un “compianto per il morto” eseguito nei ritmi ebbri e scatenati della tarantella, ha illuminato la mia serata e, di nuovo, ha indicato una strada da seguire per sentire quel sapore prima che evapori.

Ma procediamo con ordine: siamo a Tor Sapienza, quartiere “di frontiera”, secondo certe definizioni giornalistiche: quartiere teatro di scontri tra cittadini “stanziali” e immigrati, alimentati spesso da una politica che su questo stato di diffidenza reciproca ci costruisce il proprio potere,  e approfondisce  i pregiudizi invece che coltivare la reciprocità.  In questo luogo, e con la collaborazione del Municipio V, delle Biblioteche Rodari, Quarticciolo, Penazzato, e del Centro sociale anziani Michele Testa, ha preso vita“LA CITTÁ DADISÉ – LA ROMA DEI SEGNI DIFFERENTI”: la realizzazione dei sogni di chi ai sogni ci crede, e di chi crede che l’arte (nel suo senso più ampio, comprensivo e profondo)  sia il linguaggio che unisce le persone qualunque sia la loro provenienza, e che libera in ciascuno energie vitali.

A rendere concreto il sogno, l’associazione The Way to the Indies – Argillateatri. Il risultato, una settimana nella quale sono entrata in un modo e ne sono uscita diversa, e con la chiara percezione che sperimentare su di sé la felicità che nasce dalla condivisione della bellezza fa venire la voglia di estendere a tutti l’invito a partecipare di questo vero e proprio Convivio, del cui nutrimento, parafrasando Dante, non ci si sazia mai.

La serata del 3 settembre era dedicata all’arte antica della tammorra e ai saggi sentimenti che la musica popolare ha tramandato nei secoli. Sentimenti che in una lingua caparbiamente viva, rivendicano il diritto all’ultima parola in faccia al destino: se la vita è amara, dura, ingiusta, io rido e rido cantando e ballando, costringendo la morte a fermarsi perché le gira la testa. La confondo, con la chitarra, con lo scacciapensieri, con un incredibile flauto fatto col legno di limone, con il putipù –l’antenato del contrabbasso, con la tammorra, con la voce, con tutto il corpo.

Cantare l’amore per la vita comunque e lasciarsi andare alla sua musica ballando è un’esperienza non solo estetica: è un’esperienza conoscitiva, rituale; si entra nella morte e se ne esce rinnovati, e vincitori, e la vittoria consiste in una felicità che vien voglia di vivere, regalandone il gusto.

‘A vita è nu muorz: non si tratta di afferrare quanto più possibile mordendo a casaccio: si tratta, invece, di dare autenticità, spontaneità e naturalezza a un gesto quasi inutile, quello di far scorrere tra le dita l’attimo che se ne sta già andando, e goderne.

La musica, e questa musica in particolare, richiama nello spettatore un’emozione arcaica ma sopita e la fa rivivere e, come nel teatro greco, lo spettatore diventa parte integrante e necessaria dello spettacolo. Le meravigliose danzatrici sono scese dal palco e hanno invitato il pubblico a ballare; i musicisti si sono presentati con ironica e irriverente grandezza e hanno letteralmente trascinato tutti, persino i più stanchi e timidi, a gioire insieme; e alla fine, dopo un’ora di ebbrezza pura, pubblico e attori (perché sì, di grandissimi attori si tratta, anche) si sono uniti in una comune, strepitosa tammurriata.

La dote di questi cantattori sta nella loro capacità (coltivata attraverso studio, ricerche e passione) di richiamare, con allegria e leggerezza, un sapere e un sapore che sono il monumento alla nostra cultura.  Qualche secolo prima, un altro meridionale, di Venosa però, aveva detto la stessa cosa in una lingua diversa ma altrettanto intrisa di sapori della terra: “sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. Carpe diem, quam minimum credula postero” (Orazio, Odi 1, 9).

Tornando a casa, a notte, pensavo alla tragedia dei profughi, a tutte le tragedie e mi chiedevo se fosse giusto per me essere così felice per questa musica. La mia risposta è sì: la felicità, questa felicità che ho provato a raccontare, rende gli uomini fratelli e li avvicina. Senza retorica, senza banalità.

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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