A Flower from Every Meadow al Mohatta Palace Museum di Karachi. Non solo arti applicate

mostra A Flower from Every Meadow (courtesy Mohatta Palace Museum)

Un fiore per ogni prato, così suona in italiano, il titolo della mostra A Flower from Every Meadow organizzata nelle sale al primo piano del Mohatta Palace Museum di Karachi (dal 10 giugno al 28 febbraio 2016), il più importante museo di arti decorative in Pakistan.

In questa megalopoli di oltre 22 milioni di abitanti, il luogo è già di per sé una parentesi di silenzio. Un silenzio animato dal ritmo e dalla melodia dei colori, dei fili, dei ricami, dei tessuti che raccontano una tradizione artigianale millenaria che si ripete nel tempo.

Gli stessi stilisti pakistani (imperdibile l’annuale appuntamento con la Karachi Fashion Week) attingono alla tradizione, traducendo con grande libertà creativa tutta la sua forza.

Punto d’arrivo della mostra, infatti, è proprio la sala con gli abiti da favola usciti dagli atelier di Sonya Battla, Maheen Khan, Faiza Samee, Bunto Kazmi, Rizwan Beyg, Shamaeel Ansari e Nilofer Shahid. In particolare, Nilofer Shahid, fondatrice nel 1991 della maison d’alta moda Meeras (nel 2014 è stata premiata dal governo francese con l’onoreficenza di Chevalier de l’ordre des Arts et des Lettres) è l’unica stilista pakistana a lavorare sui temi storici. La sua Nur Jehan Collection (2008) rende omaggio ad una delle donne più potenti e carismatiche del subcontinente indiano, l’imperatrice moghul Nur Jehan (1577-1645), consorte di Jahangir.

In un paese come il Pakistan, con ha la più antica e ricca tradizione tessile al mondo, come testimoniano reperti archeologici che risalgono al 5000 a.C., arte e artigianato procedono parallelamente nella storia del ricamo e della tessitura, manifesti di appartenenza, identità, codici linguistici di per sé.

Spiega la curatrice Nasreen Askari:

“Visivamente i tessuti hanno un grande potere e diversi significati, sono una formula di identità e appartenenza come la religione, l’architettura… Si riconosce il luogo da cui provengono. Quest’identità viene mescolata con la modernità, ma allo stesso tempo è un punto di orgoglio per quello che siamo. In un certo senso ci dice chi siamo, da dove veniamo.”

Nulla è casuale neppure nella tessitura di cotone, lana, seta; quanto alle diverse tecniche di tintura – come si può vedere nella prima sala (Magical Rhythms) – i processi più comuni sono quello dell’ajrak (con gli stampi di legno) e del bandhana (nodi) che prevedono l’uso di tinte naturali.

Dalla provincia del Sindh al Punjab, fino alle zone della frontiera dell’Hindu Kush e a quelle remote di Gilgit, Hunza, Baltistan, al Balochistan è tutta un’esplosione di colori e fitte decorazioni sulle gonne, sui gilet degli uomini e dei bambini, negli abiti delle spose, sui bordi degli scialli…

Sembra quasi che più ci si addentra nei territori aridi e spesso desertici delle poverissime aree rurali, più esplode l’esigenza di definire la presenza umana attraverso intricati e raffinatissimi ricami che prevedono anche l’uso di piccoli specchi.

Ricami che impreziosiscono gli ornamenti delle selle dei cavalli e dei cammelli, entrando anche nelle giddan (le tende dei nomadi), che se esternamente appaiono nella loro essenzialità al loro interno svelano tesori nascosti.

I ricami del Balochistan sono essenzialmente geometrici, a Thatta riproducono il trifoglio, mentre è nella tradizione mogul la ripetizione di uccelli e dei fiori. Ma ogni area geografica ha un suo motivo preciso che assume specifici significati, come è ben illustrato nelle sale del Mohatta Palace Museum.

Le centinaia di pezzi provengono prevalentemente da collezioni private (Khan di Kalat, Nawab di Bahawalpur e Talpur Mirs di Hyderabad), inclusa quella della curatrice stessa che dopo la laurea in medicina (ha studiato odontoiatria alla University of Sindh in Jamshoro) si è lasciata tentare dalla grande passione per il tessuto e il costume, intraprendendo vent’anni fa questa nuova carriera: nel 1997, insieme a Rosemary Crill, ha curato la mostra  Colours of the Indus: Costumes and Textiles of Pakistan al Victoria & Albert Museum di Londra.

E’ proprio Nasreen Askari, con la sua bella voce, a raccontare un aneddoto piuttosto significativo.

“All’epoca frequentavo medicina al college, che si trovava nell’interno della provincia del Sindh. Era un posto veramente selvaggio, per niente sviluppato, arido, secco, marrone… non c’era verde. Nella clinica scrivevamo informazioni di base su ogni paziente: nome, indirizzo, sintomi, decorso della malattia. Lì si parlava sindhi, non l’urdu che è la lingua nazionale. Io ero una ragazza di città e non conoscevo neanche una parola di sindhi. Mi sentivo molto nervosa, perché non sapevo come fare, ma un ragazzo molto gentile del gruppo mi aiutò, lui avrebbe fatto le domande in sindhi e io avrei scritto le risposte in urdu.

Eravamo al di là di una piccola tenda che usavamo per la privacy, quando arrivò un paziente con la madre e il padre. La madre indossava lo scialle più bello che avessi mai visto. Allora feci un terribile sbaglio, presi un angolo dello scialle e dissi “Oh mio dio è così bello!”. Lei mi prese la mano e le diede una botta. Ero attonita, non sapevo proprio cosa fare. Non avevo mai avuto un’esperienza del genere. Ma andammo avanti con le domande e le risposte. Quando poi la madre stava per andare via, disse al ragazzo che mi aiutava: “Dì all’adi (in sindhi significa sorella) che voglio parlare con lei”.  Ero io a quel punto a non voler parlare con lei. Fu lui ad insistere perché ascoltassi quello che lei aveva da dirmi. Era una donna di polso. Alla fine la ascoltai. “Non farlo mai più”- mi disse -. “Non devi più chiacchierare con me, né chiedermi cose folli… come: qual è il tuo nome, da dove vieni… o anche la professione di mio marito, che è carpentiere…; devi solo guardare il mio scialle che ti dirà chi sono. Perché perdi tempo e lo fai perdere anche a me?’”Mi scusai molto e le dissi che non sapevo come riconoscere il suo scialle, perché arrivavo dalla città. “Ah!”, fece, “ecco perché sei così stupida. E’ arrivato il momento per una buona lezione.” Aprì lo scialle sulle mie gambe e indicò i fiori. “Questi sono i fiori delle donne Khosa Baluch che abitano in montagna, nessun altro in questo paese potrebbe mai indossare questi fiori. Vedi questi altri? Sono i miei figli. Ho tre figlie femmine e due maschi: cinque fiori intorno al fiore principale. Probabilmente non hai mai visto prima questo meraviglioso ricamo geometrico, questo è il lavoro del carpentiere che mette insieme pezzi di legno. Ora sai tutto.” La ringraziai. Hassan, suo figlio, aveva un brutto tumore e lo ricoverammo in ospedale. Per due mesi e dieci giorni lei se ne stette seduta sul pavimento, accanto al letto, senza mangiare, né bere, senza lamentarsi. Era lì, calma, serena, raccolta. Dopo due mesi e dieci giorni dal consulto seppi che il paziente non sarebbe sopravvissuto. Dovevamo dire alla madre di riportarlo a casa e dargli del latte, della frutta, la torta. Ma erano poveri, dissi, come avrebbero potuto dargli quei cibi? Il mio compagno, che aveva un debole per le torte, mi disse di non preoccuparmi. Raccogliemmo quei cibi e glieli demmo. Fu molto difficile. Lei, allora, mi consegnò un piccolo pezzo quadrato di tessuto rosso del suo scialle, su cui c’era un fiore ricamato. Mi disse di tenerlo e quando mia figlia – mi disse anche che avrei avuto una figlia – si fosse sposata lo avrei messo al collo. Poi andò via. Naturalmente, il figlio morì. Ma quella fu una lezione che non ho mai dimenticato.”

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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