4.Biennale Istanbul – Saltwater: A Theory of Thought Forms

Biennale Istanbul

Forse è il titolo che alza le aspettative. Forse è l’idea di base di una biennale espansa che fa presagire un viaggio esperenziale per il mondo, attraverso le 36 sedi nelle quali sono distribuite le 1500 opere degli 80 artisti individuati in ben 5 continenti, scientificamente suddivisi in: 30% artisti locali, 30% artisti con i quali solitamente opera, 30% giovani e un 10% in eccesso. Forse è la curatela della blasonata Carolyn Christov-Bakargiev, nominata a maggio e che, fino alla vigilia dell’apertura, ha tenuto super segreta la lista degli artisti invitati, perché l’unica cosa che era dato sapere era il titolo, SALTWATER: A Theory of Thought Form. Fatto è che le attese erano alte e non sono state pienamente adempiute, che la visita si rivela complicata, che la Biennale stessa, a conti fatti, si presenta in molti punti debole e, in generale, frammentaria. Organizzata dalla Istanbul Foundation for Culture and Art (IKSV), aperta al pubblico dal 5 settembre al 1° novembre 2015, dal 2013 la Biennale di Istanbul, giunta quest’anno alla sua quattordicesima edizione, ha eliminato il biglietto d’ingresso, scelta che si è dimostrata vincente perché è notevolmente incrementato il numero di visitatori. Tuttavia non è pratica nuova quella di distribuire i lavori per la città. E, a questo punto, è quasi impossibile non domandarsi se organizzare esposizioni fuori dei luoghi deputati ad accogliere l’arte sia la conseguenza del fatto che tali luoghi sono sempre più logori e logorati da una creativa programmazione che deve fare i conti con tutto, tranne che con l’arte e, ancor meno, con la cultura. A cascata ci si domanda quindi quale sia ormai il ruolo del museo stesso e se sussiste tuttora la necessità che continui ad esistere.

Comunque, ritornando a bomba, la stessa Carolyn Christov-Bakargiev aveva dato prova di gestire magistralmente una mostra espansa in ambienti estranei all’arte con la sua straordinaria 13.dOCUMENTA (una sigla curatoriale?), a dimostrare e testimoniare che l’arte può trovarsi ovunque ed è ovunque, basta saperla vedere. Ma un conto è Kassel, tutt’altra cosa è una città dove gli spostamenti sono tortuosi e affatto agevoli. Rinnovare la formula sperimentata in Germania si dimostra alquanto azzardata. Seppure è vero che nella vita non si può vedere tutto, e che quindi anche di una biennale sia possibile non visitare tutto, è altrettanto vero che chi affronta un viaggio, si augura di riuscirci, almeno a ricompensa del trasferimento intrapreso. È cosa nota che spesso i titoli di simili rassegne sono fumosi e generali, prassi che permette di poter inserire al suo interno qualsiasi cosa. Ma nel nostro caso s’è creata un’ulteriore ambiguità. Utilizzando SALTWATER, si individua un termine ben esatto, con altrettanti precisi richiami, ancor di più in questo delicato momento storico. Pertanto, non si può saltare a piè pari quanto esso evochi nelle menti di tutti. Completa il titolo con A Theory of Thought Form, che è un po’ come dire l’uovo di Colombo: è ovvio che dal momento che un pensiero è elaborato e viene licenziato dalla mente, prende una forma, verbale, scritta, artistica che sia. E quindi è altrettanto ovvio che dentro questa forma ci possiamo mettere tutto, ma veramente tutto. Ma allora attenzione alla prima parte del titolo. Una piccola svista che poteva/doveva essere evitata. Accettando la sacrosanta libertà della curatrice di non voler fare una biennale politica (termine abusato e svuotato, ma ancora utile a delineare una certa idea), di contro doveva esserci perciò più attenzione all’intitolazione. Come alla dichiarazione in cui afferma che non ha svolto una selezione, ma ha costruito la mostra per aggregazione, come se poi anche quest’azione non rientrasse nella scelta e nella selezione e, quindi, nell’attività del curatore stesso. È vero che in questo modo la Christov-Bakargiev vuole illustrare una teoria delle forme pensiero, ma è altresì vero che si rischia non solo di non rispettare le poetiche dei singoli artisti individuati, ma anche di assegnare loro un significato del tutto estraneo alla loro personale ricerca, piegandoli alla dittatura del curatore, affiancando artisti sideralmente distanti. Partendo perciò da un supporto teorico, ovvero il testo Thoughts Forms che Annie Besant ha scritto con Charles Webster Leadbeater nel 1905, nel quale sosteneva che:

“ogni pensiero crea una serie di vibrazioni nella sostanza del corpo mentale (…) che proietta all’esterno una frazione di se medesimo che assume forma connaturata alla sua intensità vibratoria (…) tale stato vibratorio ha per effetto di attrarre a sé (…) sostanza sublimata simile alla propria. Ne consegue che viene a creare una forma-pensiero”.

Ad esso ha sommato lo spunto geografico offerto dal Bosforo, il canale tra Europa e Asia, dal punto estremo a nord, individuato in Rumeli Feneri, a quello più estremo a sud, nelle Isole dei Principi, e quindi alle onde e al loro perpetuo movimento, a indicare quello degli esseri umani (per questo ancora di più si avverte l’assenza di certi temi spinosi, che con simili premesse non potevano essere sorvolati) come quello delle emozioni. Si diceva una mostra espansa, una mostra cioè che chiede tempo: se ne guardi il visitatore che non ha messo in conto almeno tre giorni per la visita. Quindi, se l’arte non è più rappresentazione della realtà, ma un’esperienza della realtà, si vuole scuotere il pubblico anche con un indiscusso impegno fisico, oltre che sensoriale. Ma alla fine, quello che avverte a conclusione della visita, è solo l’individuazione di certe esperienze che si vogliono investire e caricare di significati universali e simbolici. Nello stesso momento sono state accolte opere che evocano e mostrano degli aspetti umili e semplici affinché siano ricordati e non passino inosservati né cadano nell’oblio, ma concorrano a divenire bagaglio di memoria di ogni singolo (chissà come mai ultimamente i curatori vogliono “curare” la cultura dello spettatore, e si assumono quasi un ruolo di docente?). Come sempre accade in questi eterogenei accostamenti, delle opere spiccano per poesia, per dimensioni, per originalità, riuscendo a primeggiare sugli spazi che le accolgono. Perché molto spesso, i luoghi individuati, sono talmente caratterizzati, da attrarre l’attenzione molto più del lavoro esposto. Come nel caso dei lavori approntati nella Princes’ Islands, ovvero il curioso video Hisser di Ed Atkins, che racconta l’incredibile storia di Jeff Bush, un uomo inghiottito da una voragine mentre dormiva nel suo letto, proiettato simultaneamente su due schermi, allestiti in due distinti piani del Rizzo Palace, un albergo abbandonato, in cui i visitatori erano più attratti nel visitare le stanze vuote e cadenti. Sulla stessa isola, per l’eccezionalità e l’opulenza, a un passo dal kitsch, spicca The Most Beautiful of All Mothers, l’inedito bestiario di Adrian Villar Rojas che emerge dal Mar di Marmara, all’uscita del giardino della casa di Leon Trotsky. Susan Philipsz con Elettra, una suggestiva installazione sonora e fotografica allestita nella malandata Mizzi Mansion, evoca l’italianissimo Guglielmo Marconi e i suoi esperimenti. Completamente calata nella storia dell’isola e della città è la bellissima O Sentimental Machine di William Kentridge installata all’Hotel Splendid Palace.

Un’installazione fortemente sensoriale, per il forte coinvolgimento olfattivo, è quella allestita nella room 104/B dell’ADAHAN Hotel: Meriç Algün Ringborg, con la sua Have you ever seen a fig tree blossom?, riempie l’intera stanza con foglie di fico, richiamando l’attenzione sulla larga diffusione di questa pianta nel quartiere. Altrettanto sensoriale è A Room of Rhythms di Cevdet Erek nell’Otopark, dove il vuoto è riempito dal riverbero di un suono. A Series of Drawings e Inside the thing there is nothing di Ania Soliman nel Pera Museum vuol essere un richiamo su oggetti del passato che erano di uso comune, utilizzati per le misurazioni, che oggi hanno perso la loro utilità ma che potrebbero costituire un nuovo museo. Another Letter to the Reader di Walid Raad allestita nel caveau della Kasa Galeri oggi Sabanci University, realizzata con casse da imballaggio, sulle quali sono intagliati motivi decorativi locali, invita a riflettere sul fatto che molte opere sono conservate nei caveau, ma in essi non si possono conservare e mantenere delle tradizioni se non vengono tramandate.

Poetico è il lavoro di Janet Cardiff & George Bures Miller, Sad Waltz and the Dancer Who Couldn’t Dance nella room 211 del Vault Hotel, dove sono fusi musica e precisione tecnologica per coniugare il ballo e le note della melodia di un pianoforte entrambi performate da marionette. L’unica opera che accenna agli armeni, nonostante la sua ridondanza, è quella di Francis Alÿs col video The Silence of Ani presso DEPO, dove dei bambini ripopolano l’antica città.

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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