Festa del Cinema di Roma 2015. Da “Under sandet” a “The Walk”

Experimenter

Senza farci inizialmente caso, buona parte dei film che ho scelto di vedere durante questa decima edizione della Festa del Cinema di Roma per la maggior parte sono tratti da storie. In particolare sto parlando di Truth di James Vanderbilt, Room di Lenny Abrahamson (sul quale non mi soffermo, concordando grossomodo con la recensione di Maddalena Marinelli), The Walk di Robert Zemeckis (visto due volte), Under sandet di Martin Zandvliet ed Experimenter di Michael Almereyda (e devo ancora vedere Legend di Brian Helgeland).

Tra i cinque, il più toccante – che durante la prima proiezione per il pubblico ha ricevuto un fiume di applausi, imbarazzando piacevolmente l’attore Roland Møller presente in sala – è stato il danese Under sandet (o Land of Mine). Il film racconta la Storia. Cioè di quando, alla fine della Seconda guerra mondiale, i prigionieri tedeschi furono costretti a sminare le coste danesi dove i soldati nazisti avevano sotterrato 2 milioni di bombe, avendo previsto lì lo sbarco degli Alleati. La Danimarca (e con lei mezza Europa) si trasformò così da vittima a carnefice.

Il sergente Carl (Roland Møller) ha al suo comando un gruppo di 14 giovani soldati per questa operazione, al termine della quale viene loro promesso che potranno tornare a casa. È a questa idea di futuro sereno che soprattutto i più piccoli si aggrappano per resistere all’orrore della loro condizione e alla durezza (benché solo iniziale) del sergente danese, a sua volta impreparato alla giovane età dei prigionieri. Sarebbe bello se tutti e 14 sopravvivessero, ma non sarebbe verosimile. Infatti, la metà dei soldati impiegati in questo lavoro morirono o rimasero mutilati. Perlopiù si trattava di ragazzini da poco mandati al fronte

Tutti gli attori sono impeccabili (tra cui anche una recente conoscenza della kermesse romana: Joel Basman – qui nei panni di Helmut Morbach, il maggiore tra i ragazzi – già visto lo scorso anno nel tedesco We are Young. We are Strong di Burhan Qurbani vincitore del premio collaterale per il miglior film straniero) e la ricostruzione non stimola pietismo. Piuttosto apre, o riapre, una ferita che ognuno di noi dovrebbe portarsi dentro, se non altro per sperare di essere finalmente diversi dalla storia che ci ha preceduti.

Tuttavia, gli studi dello psicologo newyorkese Stanley Milgram (figlio di immigrati ebrei dell’Europa dell’Est scampati alla Shoah) condotti negli anni Sessanta e raccontanti (intelligentemente) nel film Experimenter non sembrano riportare dati confortanti sul cambiamento del genere umano.

Nel 1961 all’Università di Yale (USA) lo psicologo sociale Stanley Milgram (Peter Sarsgaard) aveva progettato un test psicologico in cui le persone che vi si sottoponevano pensavano di somministrare scosse elettriche a un estraneo (Jim Gaffigan) legato a una sedia in un’altra stanza. Ai soggetti (uomini e donne appartenenti al ceto medio americano) veniva detto che si trattava di un esperimento sulla memoria, quando in realtà era sulla conformità, la coscienza e il libero arbitrio. Infatti, Milgram stava cercando di venire a patti con la tragedia dell’Olocausto e testando la predisposizione delle persone a rispettare l’autorità. La domanda universale era:  E tu, cosa avresti fatto? Accanto a lui, oltre al gruppo di ricercatori, aveva la fidanzata – e poi moglie – Sasha (Winona Ryder).

“Morale” dell’esperimento fu che il 65% di chi si sottopose al test inferse all’estraneo una scarica potenzialmente mortale, obbedendo ai garbati comandi di una figura autorevole (John Palladino). Nessuno, finito il test, provò a sincerarsi delle condizioni dello sconosciuto.

Quando le sue scoperte sull’obbedienza all’autorità vennero pubblicate sul New York Times, Milgram (in lizza per una cattedra a Harvard) fu accusato di mentire, di essere un mostro manipolatore. Ovviamente perse il lavoro nella prestigiosa università, ma continuò le sue (molte) ricerche alla City University of New York. Nel 1974 riaccese persino il dibattito pubblicando il libro Obedience to Authority, an Experimental View dal quale venne anche tratta una serie TV. Purtroppo, il 20 dicembre 1984 Milgram fu stroncato da un infarto a soli 51 anni.

L’esperimento sull’obbedienza all’autorità è stato ripetuto negli anni, anche di recente, portando all’incirca agli stessi risultati. È ormai abbastanza evidente che la domanda non sia più E tu, cosa avresti fatto?

Problemi di attendibilità anche in Truth, il film ispirato al libro della giornalista Mary Mapes sul famoso scandalo (cosiddetto “Rathergate”) che coinvolse lei, produttrice in CSB News, Dan Rather (giornalista e storico anchorman di 60 Minutes) e il team che con loro lavorò al reportage investigativo sul sospetto stato di servizio dell’allora presidente George W. Bush come pilota nella Guardia Nazionale (1968-1974).

La storia è nota ai più. Stati Uniti d’America, 2004, anno di elezioni presidenziali. Mary Mapes (Cate Blanchett), Dan Rather (Robert Redford) e un ristretto gruppo di colleghi affidabili e capaci lavorano sulla veridicità di alcuni documenti arrivati alla loro attenzione da una fonte apparentemente attendibile. Il servizio, montato per esigenze di palinsesto in pochi giorni, viene mandato in onda la sera dell’8 settembre. Tutti ne sono entusiasti, ma nei giorni successivi alcuni blog iniziano a gettare un’ombra di sospetto sull’autenticità dei documenti mostrati.

Il team si vede così costretto a rivedere tutto il proprio lavoro per poter controbattere alle accuse. Man mano che vanno avanti, pur riuscendo a rispondere al fuoco, vedono i testimoni chiave iniziare a crollare, a rimangiarsi quanto affermato fino a pochi giorni prima. Alla fine, a seguito di una indagine aziendale, Mary Mapes verrà licenziata e Dan Rather deciderà di andare in pensione. Il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America sarà ancora George W. Bush.

Benché la storia sia importante e interessante, il film non risulta poi così brillante. È lento, lineare (troppo) e là dove dovrebbero esserci dei cambi di ritmo e di progressione della storia alla fine il risultato è piatto. La regia di Vanderbilt (alla sua prima prova in questo ruolo) così “para para” (per dirla alla romana), cioè “puntuale, precisa, minuziosa quasi pedante” (per il resto d’Italia), non aiuta a dare elettricità alla narrazione (pur avendo a disposizione ottimi attori) di un evento noto del recente passato.

Discorso diverso, a proposito di biografie, per The Walk. Giusto, il regista è Robert Zemeckis (30 anni fa usciva nelle sale il capolavoro di Ritorno al futuro, ad esempio) e il film non parla di uno scandalo giornalistico, perciò il tono può essere meno serioso. Ma vi assicuro che Philippe Petit, il funambolo che il 7 agosto 1974 camminò per 45 minuti lungo un filo di piombo agganciato ai tetti delle Torri Gemelle, è un tipo tosto. Non deve dunque essere stato facile adattare per il cinema la sua impresa (raccolta nel libro To Reach the Clouds, 2002).

Questo è uno di quei pochi film che vale la pena di andare a vedere in 3D: vi sembrerà di camminare sul filo con Petit (interpretato da un bravissimo Joseph Gordon-Levitt). Non sarà piacevole, soprattutto se avete problemi con vuoto e altezza. Ma sarà comunque bellissimo. Quel momento è poesia, teatro, magia. È una cosa talmente più grande della maggior parte dei comuni mortali da sembrare impossibile. Ci sono le foto, c’è la storia che conferma ogni passo su quel filo. Eppure un po’ non ci credi e un po’ distogli lo sguardo pregando che non cada.

Dopo questa camminata a 110 piani d’altezza, i newyorkesi iniziarono ad amare le Torri Gemelle, all’epoca in fase di ultimazione. Aveva dato un’anima a quei “due enormi schedari per uffici”. Le aveva rese parte del tessuto cittadino: collegando le Torri tra loro con quel filo – che per Petit è il filo della vita (guai a chiamarlo cavo!) ed è vivo come un animale – le aveva collegate con la gente. Per sempre.

 

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Giornalista pubblicista dal 2012, scrive da quando, bambina, le è stato regalato il suo primo diario. Ha scritto a lungo su InStoria.it e ha aiutato manoscritti a diventare libri lavorando in una casa editrice romana, esperienza che ha definito i contorni dei suoi interessi influendo, inevitabilmente, sul suo percorso nel giornalismo. Nel 2013 ha collaborato con il mensile Leggere:tutti ma è scrivendo per art a part of cult(ure) che ha potuto trovare il suo posto fra libri, festival e arti. Essere nata nel 1989 le ha sempre dato la strana sensazione di essere “in tempo”, chissà poi per cosa...

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