Enrico Corleone – Una vita di corsa ma non la Fotografia

Nell’apoca della facebookdipendenza, della nevrosi da traffico perenne e dell’ansia da capitali volatili, fa una certa impressione sentirsi dire che negli anni ’50 c’era chi andava di corsa. Anche se in misura diversa, le cose stavano proprio così, se pure allora non era uguale per tutti.

Alla Interzone Galleria di Roma ci si concentra proprio su un personaggio che, malgrado la giovane età, ai suoi tempi sembrava già adulto, aveva preso la sua strada e tagliava le vie di Milano con grande dinamismo: è Enrico Corleone, prematuramente scomparso zio del gallerista Michele Corleone e figura-chiave nella famiglia nel suo anticipare con la sua passione per la fotografia, quella del più fortunato nipote, arrivato per età e talento ad importanti risultati professionali nel settore.

Possiamo vedere le sue foto – in mostra sino all’11 novembre – sono tutto ciò che è rimasto del giovane fotografo, scomparso a soli 18 anni per un tragico incidente stradale ad un isolato da casa, ed il materiale – la cui esistenza, come anche quella dello zio stesso, è stata rivelata a Michele Corleone molto tardivamente – era tutto raccolto in una scatola, quasi uno scrigno di tesori, quando gli fu consegnato. Possiamo immaginare la trepidazione del gallerista nello scoprire, mano a mano, le immagini che il giovane zio era venuto scattando in quegli anni lontani: immagini che riflettono un mix di spensieratezza e di consapevolezza del mezzo, come se volesse già allora, con leggerezza ma già di corsa, voler tracciare le direttive di una sua ricerca espressiva: ci sono da un lato le foto da primo reportage scattate ai suoi amici, già queste con una precisa e al tempo stesso “naturale” metodologia, e dall’altro i ritagli, sia di giornali che delle sue stesse stampe, ritagliate e poi montate a volte insieme a comporre delle soluzioni anche simpaticamente provocatorie. Possiamo immaginare Enrico Corleone, infatti, come un giovane cresciuto in fretta, come parecchi della sua generazione, quasi ansiosi di generare l’onda che riportasse la società italiana a galla dopo il baratro della Seconda Guerra Mondiale; il boom economico era ancora lontano, ma sia chi poteva sia chi non poteva dovevano darsi da fare, e anche così, forse, oltre che con la moda del tempo, si spiega la serietà dell’abbigliamento – l’austero cappottone grigio, ad esempio – insieme alla disinvoltura da “scapigliato” (la citazione letteraria è autorizzata, parlando di Milano) che lo portava ad osare trasgressioni ardite per l’epoca, come quella di montare la sua testa ritagliata su un corpo di donna.

Evidentemente il giovane sentiva agitarsi dentro di sé la fiammella della sperimentazione, non si accontentava di essere impiegato in uno studio fotografico, ma cercava di far scorrere sulle cose che lo circondavano un suo sguardo particolare. Quando si trovava con amici e amiche, aveva l’abitudine di fotografarli – come dimostrato bellamente dalle opere in mostra – mentre camminavano, da dietro, mostrando i loro passi, o come erano raccolti in gruppo, e negli autobus (o tram), avendo poi l’accortezza documentaria – ecco la metodologia cui si faceva accenno prima – di farsi fotografare anch’egli insieme a loro. Mostra all’obiettivo un volto scarno, quasi jazz, l’Enrico, salvo mostrare fattezze lievemente diverse nelle varie foto, come se volente o nolente fosse anche un po’ trasformista e gli scappasse di far trasparire questo suo essere già discretamente “diverso”, cioè artista. Ed è dunque una vita d’artista quella che ci si presenta davanti, ma non dal vivo, bensì in immagini, posticipate rispetto al loro scorrere originario, che però – come scrive suo nipote Michele nel curato catalogo volutamente rough – nulla tolgono a quella vita vissuta: lettere e appunti, oltre alle foto, ci permettono una conoscenza arricchita da una certa complicità con quel giovane baldo fotografo.

Quando entrò in possesso per la prima volta di questo corpus di opere e spunti, Michele ebbe subito il pensiero di farne una mostra, di offrire una nuova corposa fetta di esistenza organica, pubblica e meditata all’esistenza che già trasuda dalle singole immagini, ancor più se si considera che questa energia è stata per lungo tempo compressa all’interno della scatola di cui dicevamo senza che il fotografo nipote sapesse nulla di un suo fotografo zio, e questo fino a pochi anni fa, quando un altro zio, di cui parliamo in seguito, fece la rivelazione. In mostra sono visibili anche, naturalmente, fotografie che ritraggono la famiglia, e altre che mostrano quella Milano anni ’50 in cui Enrico viveva fotografando e tessendo fili sottili tra gli elementi di alcune sue stampe, come sottili, ci dice il fotografo-gallerista Michele, sono i fili che intrecciano i destini di alcuni membri della loro famiglia. Ed è proprio sui volti, quello di Enrico e degli amici, che si focalizza maggiormente oggi il nipote, fotografo soprattutto ritrattista.

La Rolleifex biottica di Enrico rivelava in profondità fragilità e forza, a volte non disgiunti, ma uniti nella diffusa intimità. Enrico e la sua corsa all’assalto della vita non sono drammaticamente ridotti, ma piuttosto seguono la natura del mezzo espressivo che lui aveva scelto: sono oggettivizzati anche nel senso materiale di essere resi oggetti, e oggetti che hanno una qualità istantanea nel loro comunicare la vita da cui provengono; ed anche la sua inclinazione a costruire mini-sequenze e la sua tecnica del micro-mosso, la stessa così cara a Michele Corleone, ci invita a percepire questo “sussulto”, questa impaziente tensione, questa sete di vitale dinamismo, appena sotteso, un guizzo potenziale, e così è come se Enrico continuasse ad andare di corsa, istante dopo istante, inafferrabile e un po’ guascone, crediamo.

Non cercava estetismi particolari, catturava il quotidiano con immediatezza, eppure c’è sempre la resa inaspettata di ciò che nel tessuto spazio-temporale agìto sfugge. L’attenzione all’intenzione originaria è stata massimale: i negativi non stampati da lui sono stati riprodotti secondo le prove ritrovate nella scatola; bastava infatti lui a gigioneggiare col materiale, ritagliando sagome, disegnando barba e baffi su qualcuno, vestendo da donna, come detto, un suo autoritratto. Le scritte, gli appunti, le combinazioni di poker riportate sul retro di alcune foto, invece, ci dicono qualcosa sul suo modo di saltare disinvoltamente tra i frames della vita, raccontando e raccontandosi in maniera così geneticamente vicina al modo di guardare del nipote, che ora generosamente condivide questa pulsione di vita solo sottilmente e anzi raffinatamente abrasa dal tempo o dall’usura, come le piccole foto che conservava nel portafoglio. Lungi dalle intenzioni della direzione artistica della galleria il creare un generico ed ingenuo effetto nostalgico, ma piuttosto il desiderio, evidente anche in questa cura del dettaglio, di “rendere una testimonianza senza reticenze” tracciando in maniera rigorosa il bilancio di un’esistenza.

Il lucore nebbiso nelle vie di Milano in cui si ferma a parlare una coppia di suoi amici, le strade sgombre di veicoli, il terzetto di bambini in un cortile disadorno, la sequenza colta da un tetto ci mostrano una realtà diversa, una Milano in bianco e nero assolutamente svanita, una sostanza integrale delle cose, una grana corposa della vita, che si prestava scarna all’interpretazione diretta e “all’impronta” del giovane fotografo: ogni scatto è uno scorcio di un altro universo, di un secolo piuttosto sorpassato di cui Enrico disponeva con facilità e spontanea ironia ma anche con affetto verso tutte le figure con cui aveva familiarità: i parenti e tutta quella gioventù che viveva la sua spensieratezza nonostante – diremmo adesso – la compostezza dei guanti di pelle, dei tacchi alti, delle sciarpe scozzesi, di quei cappotti onnipresenti, un po’ pensosi, e di qualche cravatta da giovane beneducato.

D’altronde, il diritto di voto allora si esercitava a ventuno anni, ma molti lavoravano già dall’età di quindici, ed è per questo che Franco Corleone osserva che questi giovani avevano “lineamenti adulti, come fossero nati vecchi”. La frase è contenuta nel secondo scritto del catalogo, in cui questo altro – autorevole – zio del gallerista ripercorre in breve quella che chiama “la saga” della sua famiglia, ricordando l’irrequietezza di Enrico (ed uno dei motivi, probabilmente il primo e più importante, per cui si manifestò: i bombardamenti) ed il suo “coraggio ai limiti dell’incoscienza” che lo portò a camminare sui tetti malgrado la neve portando con sé anche uno dei fratelli, e a costruire carretti artigianali con cui scorrazzare alquanto rumorosamente per casa, e poi la sua passione per la musica e per la fisarmonica come strumento, e la scelta della moto come mezzo di spostamento quando iniziò a lavorare per una agenzia fotografica e a realizzare servizi fotografici allo stadio per la Gazzetta dello Sport, e infine lo spirito di ribellione che forse aveva mutuato dall’icona James Dean.

La vita s’era fatta più piana, della guerra restavano poche scorie ormai, anche nello spirito, ed il canto a voce e braccia spianate di Domenico Modugno “Volare!” aveva trasmesso alla nazione una grande ed esuberante energia che induceva a spazzarle via. E mentre la maggior parte delle persone scivolavano placidamente nelle routine industriose della vita civile, il giovane Enrico pensava già a tramandarle, queste visioni di un tempo che gli si sarebbe interrotto… forse però gettando, con il cosiddetto “inconscio ottico” della macchina, ma anche quello del cuore, un ponte ideale verso il professionista Michele che avrebbe poi maturato e condotto in un futuro allora impensabile la sua linea di ricerca, embrionale per la sua giovane età, eppure proprio per questo decisamente notevole.
Il nutrito catalogo, vero oggetto d’arte e finestra su un mondo sparito e su una giovane vita mossa da impulsi forse inusuali, si compone, oltre che di molte foto in mostra, anche della riproduzione del retro delle stesse, con gli appunti vergati a mano da Enrico Corleone, e di diversi altri piccoli oggetti a lui appartenuti, e in più è completata da due scritti, uno introduttivo del fotografo-gallerista Michele, l’altro del succitato zio Franco Corleone, che informò il nipote di questo significativo antecedente familiare legato alla pulsione fotografica, la presenza vitale, nell’albero genealogico, di un altro fotografo, che spiega da dove nasce il talento di Michele, dal punto di vista sia tecnico sia forse esistenziale, le due dimensioni di questa mostra. Le radici, la memoria, cifre ricorrenti nel programma espositivo della galleria, non hanno la coloritura ideologica che un tempo gli si attribuiva, se aiutano a coltivare in modo sincero e profondo emozioni e ricordi di cui ogni amante dell’arte che sia fino in fondo persona si alimenta.

Website | + ARTICOLI

il7 - Marco Settembre, laureato cum laude in Sociologia ad indirizzo comunicazione con una tesi su cinema sperimentale e videoarte, accanto all'attività giornalistica da pubblicista (arte, musica, cinema) mantiene pervicacemente la sua dimensione da artistoide, come documentato negli anni dal suo impegno nella pittura (decennale), nella grafica pubblicitaria, nella videoarte, nella fotografia (fa parte delle scuderie della Galleria Gallerati). Nel 1997 è risultato tra i vincitori del concorso comunale L'Arte a Roma e perciò potè presentare una videoinstallazione post-apocalittica nei locali dell'ex mattatoio di Testaccio; da allora alcuni suoi video sono nell'archivio del MACRO di Via Reggio Emilia. Come scrittore, ha pubblicato il libro fotografico "Esterno, giorno" (Edilet, 2011), l'antologia avantpop "Elucubrazioni a buffo!" (Edilet, 2015) e "Ritorno A Locus Solus" (Le Edizioni del Collage di 'Patafisica, 2018). Dal 2017 è Di-Rettore del Decollàge romano di 'Patafisica. Ha pubblicato anche alcuni scritti "obliqui" nel Catalogo del Loverismo (I e II) intorno al 2011, sei racconti nell'antologia "Racconti di Traslochi ad Arte" (Associazione Traslochi ad Arte e Ilmiolibro.it, 2012), uno nell'antologia "Oltre il confine", sul tema delle migrazioni (Prospero Editore, 2019) ed un contributo saggistico su Alfred Jarry nel "13° Quaderno di 'Patafisica". È presente con un'anteprima del suo romanzo sperimentale Progetto NO all'interno del numero 7 della rivista italo-americana di cultura underground NIGHT Italia di Marco Fioramanti. Il fantascientifico, grottesco e cyberpunk Progetto NO, presentato da il7 già in diversi readings performativi e classificatosi 2° al concorso MArte Live sezione letteratura, nel 2010, è in corso di revisione; sarà un volume di più di 500 pagine. Collabora con la galleria Ospizio Giovani Artisti, presso cui ha partecipato a sei mostre esponendo ogni volta una sua opera fotografica a tema correlata all'episodio tratto dal suo Progetto NO che contestualmente legge nel suo rituale reading performativo delle 7 di sera, al vernissage della mostra. ll il7 ha quasi pronti altri due romanzi ed una nuova antologia. Ha fatto suo il motto gramsciano "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà", ed ha un profilo da outsider discreto!

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.