Più che un reading. Fabrizio Gifuni incarna i “Ragazzi di vita”

“Sono come un gatto bruciato vivo/pestato dal copertone di un autotreno,/impiccato da ragazzi a un fico/ma ancora almeno con sei/delle sue sette vite”

Inizia così, il secondo appuntamento del ciclo che il Teatro Franco Parenti dedica a Pier Paolo Pasolini, nel quarantennale della sua scomparsa.
Raccontando Pasolini è ormai sempre più facile essere retorici o ridondanti, farlo attraverso il reading è una sfida teatralmente ancor più impegnativa. È necessario un protagonista di talento ed esperto dello scrittore friulano come Fabrizio Gifuni – già interprete di un primo omaggio, na specie de cadavere lunghissimo per scansare tutti i rischi.
È lui a far entrare lo spettatore nella vita di Riccetto e – attraverso un’accurata scelta di estratti – seguirlo lungo la sua evoluzione nella vita “di borgata”.
Ci è presentato bambino, già smaliziato ma ancora acerbo in un mondo di ladruncoli, ubriaconi, prostitute pronte a rubargli di tasca il rubato, e cattivi maestri non di molto più vecchi di lui. Accanto e intorno una girandola di volti e vicende affratellate alla sua, il Piattoletta, il Caciotta, il Lanzetta, Agnolo, Begalone, bambini capaci anche di grosse generosità che si fanno uomini, attraverso dubbi e brutalità, fino al cinismo dell’età adulta. Quello con cui Riccetto si allontana dal fiume in cui l’amico Genesio è scivolato, senza guardarsi indietro, perchè quella generosità non gli appartiene più.
Intorno una Roma che esce dalla guerra, in cui ancora risuonano i cingoli dei carrarmati, lanciata verso il miracolo economico e da esso già deturpata, mentre la varechina ne avvelena le acque.
Tutto questo, Gifuni fa molto più che leggerlo. Lo fa rivivere. È reso tangibile l’amore dello scrittore e regista per la crudele innocenza dei figli delle borgate, costretti a guadagnarsi con le unghie il modo di sopravvivere in un angolo fatiscente del mondo.
L’attore romano restituisce al pubblico tutta la verità insita nel romanzo pasoliniano e tutta la complessità delle sue voci, in un moto che va dall’alto dell’eleganza di alcune descrizioni alla forza del gergo dei sottoproletari, dal romanesco fluido che Pasolini aveva scelto, al friulano delle poesie – accuratamente tradotte verso per verso senza che per questo se ne perda il lirismo – con cui Gifuni intervalla la lettura, che a tratti sembra echeggiare, pur senza imitazione, la voce medesima dell’intellettuale di Casarsa
Gifuni è solo in scena, non c’è scenografia ed è praticamente assente la costruzione registica, eppure è capace di dare ad ogni vicenda ed ogni personaggio una sottolineatura che non esaspera e non banalizza i caratteri, ma li rende riconoscibili. Ogni gesto, ancorchè minimo, ogni postura è funzionale e misurato, e si integra perfettamente alle parole del romanzo, persino – come raramente succede – lo sforzo di sottrazione della complessità scenica, sostenuta dalla notevole e comprovata abilità affabulatoria dell’interprete, riesce nell’impresa di restituire alle parole tutto il loro valore, facendosene tramite e porgendolo interamente al pubblico che, avvinto, gli tributa un convinto applauso.

Se “La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi.” Gifuni è uno dei pochissimi a potersi arrogare il merito di aver riscattato il fascino dell’autore di Casarsa, la capacità di essere fuori dal tempo proprio perchè profondamente calato in esso, e di parlare all’oggi del ventunesimo secolo come a quello degli anni Settanta. Il merito di averlo, in sostanza, riportato in vita.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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