Pio Tarantini. Fotografia araba fenice e altro. Intervista

Pio Tarantini nella sua casa a Milano, ottobre 2015 (foto Manuela De Leonardis)

“La divisione tra fotografia come documentazione e come ricerca artistica costituisce un falso problema ma è stata, e per certi versi, resta al centro di un dibattito polveroso:” – scrive Pio Tarantini (Torchiarolo 1950, vive e lavora a Milano) nel saggio Fotografia araba fenice. Note sparse tra fotografia, cultura e il mestiere di vivere (Edizioni Quinlan, Bologna 2014) – “i due ambiti infatti non sono così facilmente separabili poiché la fotografia di informazione e documentazione è già di per sé una forma di espressione artistica senza bisogno di ulteriori conferme.” Documentazione e ricerca artistica sono proprio due aspetti del lavoro del fotografo salentino, a cui viene reso omaggio con due nuove mostre personali:  Stratigrafie presso le sale della Rocca Flea a Gualdo Tadino, Perugia (3 dicembre-9 gennaio 2016) e Le parole e le cose. Frammenti di un vecchio vocabolario, ricerca fotografica intorno ad un vocabolario della lingua italiana (uno Zingarelli del 1922) presentata alla Biblioteca Sormani di Milano (16 dicembre 2015-16 gennaio 2016).

Non ho mai fatto scuole di fotografia. La mia formazione è classica. Sono nato nel Salento e ho frequentato il liceo classico a Lecce…”, comincia così la nostra conversazione.

Prendi in mano la macchina fotografica da ragazzo e non la lasci più…

La mia passione nasce da adolescente, a metà degli anni ’60. Ebbi l’occasione di avere in mano una macchina professionale, una reflex biottica della Rollei. Imparai ad usarla semplicemente comprando un mitico manualetto di quegli anni, Il libro della fotografia di Andreas Feininger. La macchina fotografica era di mio cognato che, proprio vedendo la mia passione, me la lasciava usare. Qualche tempo dopo – andavo ancora al liceo – cominciai a frequentare il fotografo del paese che mi fece usare anche le sue macchine e mi introdusse ai misteri della camera oscura: sviluppare, stampare. Ma in quegli anni, ancor più della fotografia – che non pensavo proprio che potesse diventare un lavoro – la mia vera passione era la cinematografia. Con le cineprese a molla realizzai diversi filmini in 8 millimetri – allora non c’era neanche il super8 – che purtroppo sono andati perduti. Crescendo la passione per la fotografia si è sempre più approfondita e ho cominciato a comprare riviste di settore, da quelle più popolari a quelle più impegnate come Popular Photography. Iniziai a delineare un percorso fotografico e a conoscere alcuni dei grandi nomi, in particolare quelli del reportage sociale come Cartier-Bresson. Ormai eravamo nel ’68 e l’impegno politico e sociale mi hanno portato a lavorare sempre più in questo campo.

Il tuo primo lavoro, realizzato nel 1972, riflette proprio questo tuo impegno politico…

Per conto della Federazione Provinciale del P.C.I. realizzati un lavoro documentario sui quartieri degradati di Brindisi, con cui feci anche la mia prima mostra al I Festival Provinciale della Festa dell’Unità di Brindisi. Le mie fotografie, scattate in 6×6, erano in bianco e nero e mostravano gli interni di un quartiere degradato nel centro storico di Brindisi, S. Pietro degli Schiavoni. Qualche anno dopo quel quartiere fu in parte demolito per costruire un grande teatro moderno. Ancora oggi ritengo che quel lavoro che feci a 22 anni è, in un certo senso, maturo.

Quando avviene il passaggio al colore?

Sia il lavoro dei quartieri degradati di Brindisi che quello che feci sei mesi dopo a Milano sono in bianco e nero. Era il Capodanno 1973, lessi sul giornale che c’era una fabbrica milanese – la famosa Geloso che produceva magnetofoni – che era stata occupata dagli operai. Senza pensarci due volte presi la macchina fotografica e andai a passare il Capodanno lì. Usai il bianco e nero ancora per qualche lavoro, ma poi dalla metà degli anni Settanta – quando ormai mi ero trasferito a Milano – si stavano diffondendo le pellicole a colori, soprattutto in diapositiva, che consentivano di ottenere stampe di qualità. Mi riferisco in particolare all’Ektachrome e al Kodachrome, pellicole in cui il colore veniva esaltato. Mi accorsi che potevo esprimere le mie emozioni più attraverso il colore che con il bianco e nero. Quanto alla ricerca dei toni pastello, o dei colori apparentemente smorzati, credo che sia una scelta condizionata, inconsciamente, dall’uso cromatico nella terra salentina. Lì la luce è mediterranea e i colori sono quelli delle facciate delle case a calce, quindi colori pastello giotteschi: celesti, rosa, rossi, gialli, verdi, azzurri. Un’altra esperienza di quegli anni che fu determinante è il lavoro che feci quando andai a fotografare una baraccopoli a sud di Brindisi, in una località che si chiama Cerano. La baraccopoli era costruita con materiali di risulta, cartelloni pubblicitari, vecchi assi di legno, compensati… Gli abitanti di una frazione poverissima di Brindisi costruivano quelle baracche sul mare, su una piattaforma di terrapieno geologico, per trascorrervi i mesi estivi. D’inverno, con il maltempo, le costruzioni si sgretolavano. Venivano rimesse in piedi l’estate successiva. Fino a quando nel ’77-’78 venne tutto spianato per far posto alla centrale a carbone, che vi sorge tuttora, una delle più grandi d’Europa. Probabilmente della baraccopoli è rimasta solo la mia testimonianza fotografica. E’ interessante notare come nella povertà assoluta si cercava di abbellire le baracche dando un minimo di decoro, per esempio costruendo con poche cose – due pali di legno o una fascia di compensato – delle verandine che venivano dipinte con gli stessi colori a calce con cui si dipingevano le case di muratura o tufo che erano in paese.

Quindi la fotografia ha continuato a rispecchiare il tuo impegno sociale e politico…

Il mio interesse per la fotografia sociale e per i problemi della società è sempre stato molto vivo, anche perché all’università ho frequentato Scienze Politiche con l’indirizzo in Sociologia. Con il tempo, però, questo impegno ha assunto connotati diversi, come nel lavoro più recente che s’intitola Milanopoli, che è stato presentato solo in maniera frammentaria. Nell’estate 2015 ha fatto parte della mostra Ieri Oggi Milano, a cura del MUFOCO, allo Spazio Oberdan di Milano e l’anno prima alla Triennale. Nasce alla fine degli anni Novanta in seguito a corsi e conferenze che tenevo all’Università di Milano Bicocca. E’ un lavoro sociologico- visuale sulle trasformazioni dell’area metropolitana milanese. Negli anni ‘90 ho dato una struttura teorica a questo lavoro che non ho mai abbandonato e che continua ancora oggi.

Nel 1973 ti trasferisci a Milano. Perché questa scelta radicale?

Avevo una sorella che era qui già da diversi anni e lavorava in pubblicità. Mi sono trasferito per frequentare l’università. Per noi pugliesi Milano è un po’ una seconda patria.

Fotografare ha avuto un nuovo input in questa città?

Nella ricerca artistica c’è stato un input attraverso la frequentazione e l’amicizia con un mio conterraneo, l’artista Enzo Rizzello che mi ha fatto conoscere la grandezza della pittura di Francis Bacon. Con Enzo, a metà degli anni Settanta, abbiamo fatto un lavoro insieme, io facevo degli studi sul mosso – altro grande canale della mia vita – fotografie in bianco e nero di persone mosse e lui da quelle fotografie traeva disegni a carboncino e a matita, una volta anche un’incisione. Tra gli artisti mi affascinano più quelli visionari che i concettuali. Artisti come Carrà o Mafai, oltre al già citato Bacon o a Chagall, che giocano molto sulle atmosfere e sui colori, che del resto – come dicono in molti – si ritrovano nella parte del mio lavoro degli ultimi due decenni, dove i colori delle fotografie hanno sempre una tonalità crepuscolare.

Hai citato Bacon e Cartier-Bresson, invece tra i fotografi italiani?

Due grandi fotografi con cui c’è molta sintonia, anche per via della loro produzione molto variegata, sono Nino Migliori e Mario Cresci. Con loro è nata anche una grande amicizia.

Lecce Barocca è un lavoro molto fortunato che fu presentato nel 1984 alla galleria Diaframma…

E’ stata la mia prima mostra importante sulla quale scrisse anche Quintavalle. Era un lavoro che per me, salentino che ha studiato a Lecce, andava fuori dagli schemi. Nel senso che ho fotografato la città sempre nelle ore serali, o addirittura notturne. Quindi cieli sempre con quei blu cobalto, oppure con il nero della notte. Una Lecce molto teatrale dove gioco sul dettaglio, sulle ombre e dove il barocco è fatto più di allusioni che di descrizioni. Questo lavoro ebbe, non a caso, molta fortuna tanto che qualche anno dopo, nel 1987, fu pubblicato con grande enfasi in quella che ritengo la mia più importante pubblicazione internazionale, la rivista d’arte Du che gli dedicò un numero monografico.

Anche per te Colombo e il Diaframma furono un punto di riferimento?

Frequentavo la galleria come tutti gli altri. Anche perché all’epoca era l’unica galleria di fotografia a Milano. L’atmosfera – parliamo della prima metà degli anni ’80 – era di grande entusiasmo e di attesa. Si capiva che la fotografia usciva dai ranghi del fotoamatorismo, e da quelli dei saloni dei circoli fotografici, per diventare qualcosa di più. Finalmente la fotografia cominciava ad essere accettata come arte, anche se con un secolo di ritardo rispetto ad altri paesi. Ma, pazienza! Questo momento magico si è poi rinnovato tra la fine degli anni ’90 e i primi del 2000, quando di nuovo sull’onda di un’espansione economica hanno cominciato a proliferare gallerie ed editoria fotografica.

Un’espansione economica che coincide con l’avvento della fotografia digitale…

Quella è un’altra storia. L’avvento vero del digitale comincia alla fine del primo decennio del 2000 per motivi anche ovvi e pratici. Fino al 2008-2009 anche io, come tanti altri, fotografavo ancora in analogico. Prima lo usavano soprattutto i professionisti della moda e della pubblicità, i reporter o i fotografi di ricerca, perché offriva opportunità pratiche che non c’erano con l’analogico, però i costi erano talmente alti che non tutti potevano permettersi di comprare una macchina fotografica digitale e un’attrezzatura professionale. Mentre nella seconda metà del primo decennio degli anni 2000 è iniziata la sua commercializzazione. Personalmente non avevo l’entusiasmo di passare al digitale, ma con il cambiamento che era avvenuto anche qui a Milano, dove avevano cominciato a chiudere i laboratori, fotografare su pellicola non solo era diventato più difficile, ma anche più costoso.

Accennavi alla tua passione giovanile per la cinematografia. In qualche modo ci può essere un collegamento con la ricerca sul mosso?

I rimandi alla cinematografia sono riconoscibili in alcuni miei lavori più narrativi di reportage, in cui mi pare di cercare – alcune volte inconsapevolmente – certi climi del neorealismo, esperienza fondante della cultura italiana. Mentre i lavori sul mosso li ricollego ad una mia ricerca di natura filosofico-esistenziale. Fin dalla mostra del 2008 alla galleria Luxardo di Roma ponevo l’attenzione sui mossi che potevano essere contestualizzati in ambienti riconoscibili o meno, come testimonianza della precarietà della nostra esistenza sul mondo. Un’altra influenza è il mio forte rapporto con il Mezzogiorno d’Italia e, in particolare, con la Puglia ed il Salento che è Magna Grecia. Secondo me nei miei lavori si sente molto una certa influenza classica nell’impostazione, nei toni, nella ricerca di certi paesaggi. Pur avendo passato ormai molto più tempo della mia vita a Milano che nel Salento, dove ho vissuto solo la mia prima giovinezza, penso che questo legame con la terra natia sia molto forte. Lì ho ancora i miei fratelli, gli amici d’infanzia, ci torno almeno una volta l’anno. Questo legame mi ha consentito di produrre molti lavori con uno sguardo più distaccato, da salentino che vive altrove.

Milano, 23 ottobre 2015.

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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