Homicide House o il gioco della verità

homicide house

Un uomo pratico e comune, pallido che all’apparenza ha tutto ciò che si potrebbe desiderare: una moglie devota e amatissima, una vita senza difficoltà. Così sembrerebbe. Il prezzo di questa normalità, tuttavia, sono debiti nei quali sta affogando, nelle mani di uno strozzino scaltro e senza scrupoli, che gli offre una sola salvezza: L’Homicide House.
Offrirsi come vittima sacrificale a chi può e vuole permettersi il piacere di uccidere – quanto più crudelmente possibile – capitalizzando quindi la propria esistenza fino al suo istante più estremo.
Volendo formulare una sinossi di Homicide House di Emanuele Aldrovandi in scena al Teatro dei Filodrammatici di Milano, si potrebbe essere tentati di trovarne di simili a queste.
Si commetterebbe un grave errore.

A prima vista si tratta indubbiamente di una favola nera, di un thriller serrato, capace di tenere costantemente desta l’attenzione dello spettatore nell’attesa di conoscere la sorte di un Uomo (Marco Macciari) innamorato di una Donna (Cecilia di Donato) venduto – anzi, regalato – da uno strozzino, Camicia a Pois (Luca Cattani) a un’assassina con ogni evidenza psicopatica, Tacchi a Spillo (Valeria Perdonò) perchè faccia di lui ciò che vuole, per appagare le proprie pulsioni omicide.
Aldrovandi tuttavia scrive un testo che è molto altro rispetto a un intrigo efficace velato di un’ironia più sottile di quanto non appaiaa un primo livello di fruizione. La scelta stessa dei nomi dei personaggi è rivelatrice: si tratta di figure spersonalizzate, che sono nessuno eppure, in realtà, sono ciascuno.
Ad un secondo livello potrebbe leggersi l’analisi della contemporaneità: una coppia innamorata ma preda dei simboli del proprio status, un creditore per cui qualsiasi aspetto della vita umana è incasellabile in una tabella di costi e ricavi, la brutalità di chi capitalizza ogni possibilità, approfittandone per essere il più crudele possibile, mentre dispone dell’altrui esistenza.

Quale più spietata, tagliente eppure efficace sintesi dell’oggi?
Si tratterebbe tuttavia, nuovamente, di una lettura parziale.
C’è un terzo livello, il più profondo e forse il più affascinante, suggerito dal sottotitolo. Questo testo – vincitore del 10° Premio Tondelli – è una riflessione sulla verità.
Attraverso dialoghi molto accurati – che rivelano un grande amore del loro autore per la parola scritta riuscendo a non diventare autocompiacimento – i protagonisti scivolano agilmente in disquisizioni spiccatamente filosofiche, interrogandosi su cosa sia la verità, su quando si può dirsi veramente liberi.
In questo senso merita un plauso la scelta registica di ambientare l’azione in una sorta di scatola, impersonale se non per una sedia e un tavolo che mutano posizione e funzione, eppure sono con evidenza incatenati. Al di là della necessità scenica, un forte simbolismo.
Se la libertà non fosse altro che «una pistola infilata in gola»?
La verità allora si potrebbe cercare soltanto quando non c’è più nulla da perdere. Solo a quel punto può crearsi, suggerisce Tacchi a Spillo, una completa apertura al prossimo, o anche solo la sua possibilità. Ma a questo punto la possibilità diventa inflitta, e sfuma il confine tra verità e potere, tra essere sè stessi e l’esserne spettatori.
Ecco che tutte le definizioni saltano, il bisogno dell’uomo di «mettere ordine» tra il bene e il male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il vero e il falso si infrange e niente è più come appare. Forse, nemmeno il male.
Quando l’ Uomo (ecco che diventa indifferente l’utilizzo della lettera maiuscola o minuscola) è abbastanza abile a rinnegarsi e insieme a discutersi a sufficienza, persino il male incarnato mostra la propria umanità, la propria fragilità, il proprio bisogno di appartenere a qualcosa o qualcuno.
È a questo punto che ogni maschera cade, e i ruoli sembrano tornare pari, e tuttavia ciascuno è sul ciglio del proprio burrone. E non c’è più modo di non chiedersi chi si è davvero. Se esiste davvero una verità alla quale tendere, sotto le superfici, oppure se ciascuno non sia piuttosto, soltanto, «la somma delle bugie che ci si racconta» La risposta sfuma nel buio e nel fragore di un colpo di pistola.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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