Napoli, Virgilio e i monumenti che cantano

Orto Botanico, Portici
Orto Botanico, Portici

Bisogna che i monumenti cantino

Piazza del Plebiscito, Palazzo Reale, Teatro San Carlo, Certosa, Castel sant’Elmo, Mastro Angioino, Santa Chiara, Duomo, Spaccanapoli, San Gregorio Armeno, Museo Archeologico e Castel dell’Ovo: et voilà, Napoli è servita, una due giorni fujenno-fujenno su e giù dal pulmino con intermezzi doverosi di pizza e caffè espresso. C’è a chi piace così, e sono tanti, alla fine tornerete a casa con gli occhi ricolmi di capolavori e contrasti, vette dell’arte e, appena scorte dietro l’angolo, atroci porcherie quotidiane. Lo shock, in parte salvifico, è assicurato ma, probabilmente, avrete colto non più del 30 pct di quanto monumenti e luoghi volevano o potevano comunicarvi. I monumenti, come diceva Valery, devono cantare, a Napoli ciò da necessario diventa indispensabile e per cantare bene hanno bisogno dei bravi cantanti. O chiamateli cantastorie o ancora storyteller come usa oggi. Non c’è infatti guida classica, cartacea o in carne ed ossa, che a Napoli possa veramente aiutarvi. Avete bisogno di altri ritmi, che voi e chi vi conduce possiate prendere il giusto tempo e riusciate a vedere ciò che è invisibile agli occhi. Dovete, in una parola, scoprire quello che in dialetto napoletano si chiama l’intallio: prendersi il tempo che le cose succedano e si rendano evidenti, lasciar passare il tempo senza far niente di rilevante, camminare al posto di correre. Avete bisogno di parole che sappiano penetrare i muri, di riferimenti che servano a legare l’abitante del basso con la cripta dietro l’angolo, avete bisogno di un Virgilio o, se volete, di un Caronte che vi aiuti a traghettare l’Ade. E l’Ade non è citato a caso, considerato quanta importanza abbia il rapporto dei napoletani con la morte (ed i morti) nella reale comprensione della città e della sua gente.

È necessario che essi generino un vocabolario.

Ma per fortuna i Virgilio a Napoli esistono, sono ancora pochi e non conosciuti come meriterebbero ma esistono e vi possono condurre. Poco importa che crescano dal “basso” o scendano “dall’alto”, che ad esempio siano ragazzi di quartieri popolari che arrivino spesso allo storytelling attraverso l’esperienza di cooperative sociali o che siano signore della Napoli-bene laureate in Storia dell’Arte: in entrambi i casi hanno saputo mettere insieme un vocabolario innovativo, l’unico capace di leggere come un unicum il quadro del seicento e l’ex voto dell’altroieri. Un’evidenza di questo processo la si è avuta a fine novembre 2015 grazie ad un blog & press tour di quattro giorni organizzato nell’ambito del progetto Baia di Napoli, promosso dal Mibact e realizzato da un raggruppamento composto da Mecenate 90 e da Mediateur. Uno degli obiettivi del progetto (attuato sulla base di quanto previsto dal QSN 2007-2013 Programma Operativo Interregionale-POIn) è la realizzazione di nuovi itinerari in una vasta area che va da Portici a Pozzuoli ed il successo del tour è arrivato in buona parte grazie all’opera di eccezionali narratori, capaci di trasformare semplici visite in vere e proprie esperienze. Prendete ad esempio Marco Apostolico e immergetevi con lui, quasi in senso letterale, nei vicoli e fra le antiche abitazioni di Rione Terra a Pozzuoli, dove un restauro molto scrupoloso anche se in ritardo di molti anni ha riportato a nuova vita la cittadella romana di quello che era, sino alla nascita di Ostia, il principale porto della capitale dell’Impero. Avrete non solo una descrizione analitica e vivacissima di come era organizzata Puteoli ma anche dello scorrere dei duemila anni successivi. Questo centro di Pozzuoli è stato infatti abitato sino al 1970 e strato sopra strato, in condizioni ambientali vicine o oltre il limite, gli abitanti hanno sovrapposto e integrato i propri usi e costumi a coloro che li avevano preceduti. Una sorta di sandwich sociale multistrato veramente unico, interrottosi appunto 45 anni fa causa l’evacuazione disposta a seguito di uno dei frequenti sciami bradisismici.

Creino una relazione, contribuiscano a creare una società civile.

Ma il tocco di genio è inserire nella narrazione quanto vedono i visitatori nel contesto della Pozzuoli di oggi, che circondando e quasi custodendo il Rione Terra ne ha, com’è logico, ereditato costumi e mutuato tradizioni. La stessa osmosi che si tocca realmente con mano quando si visita la Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco di Napoli condotti da Francesca Amirante. Il raffinato barocco è infatti solo uno, e forse il più elementare, componente della fascinazione di una struttura che letteralmente respira con il proprio quartiere sull’onda della potente metafora del Purgatorio.. Scendete infatti la scala posta subito a sinistra dopo l’ingresso e penetrerete in una seconda Chiesa, sotterranea, concepita (e largamente utilizzata, nonostante vigorose scomuniche del Clero ufficiale) per dare sepoltura alle anime povere, le cosidette pezzentelle, ovvero quelle di coloro che devono sostare in Purgatorio in attesa di salire al Paradiso. Ed il racconto appassionato della Amirante vi farà vivere l’esperienza dei tanti napoletani che tutt’oggi adottano, con tanto di tessera, un’anima pezzentella e la omaggiano con doni, ex voto e preghiere affinché guadagni il Paradiso e ricompensi il donatore con una vita terrena meno miserevole. Salvo verificare, dopo un certo tempo, se gli sforzi compiuti siano stati ricompensati e, in caso negativo, passare ad altra anima pezzentella. E se poi c’è a Napoli un monumento che pare quasi chiedere ai suoi cantori di essere narrato questo è senz’altro la celeberrima Cappella San Severo, con all’interno il celebrato Cristo velato del Sanmartino. Gioiello barocco o tempio massonico? Statua dopo statua (e il Cristo è solo parte di un progetto, anche concettuale, altissimo), dipinto dopo dipinto, medaglione dopo medaglione sempre la Amirante saprà quasi farvi penetrare nel labirinto mentale dell’ideatore Raimondo di Sangro. La Cappella vive in uno con lo spirito ancora presente di questo straordinario inventore, esoterista, alchimista, letterato e amante delle arti, le cui allegorie vi verranno s-velate dal nostro Virgilio.

Chiesa di San Giovanni a Carbonara
Chiesa di San Giovanni a Carbonara

La memoria storica infatti, non è un fondo immobile in grado di comunicare comunque, bisogna sapere come farla riaffiorare, va continuamente rinarrata.

E quindi uscendo da visite siffatte alla Chiesa del Purgatorio ad Arco o alla Cappella San Severo, il visitatore sente di possedere, grazie al Virgilio-Caronte che l’ha condotto, nuovi occhi per guardare i vicoli e la sua gente e persino gli aspetti più deteriori allo sguardo del visitatore moderno paiono, caduto appunto il velo, assumere una dimensione diversa, vengono trasfigurati. Lo stesso che accade entrando in uno dei luoghi più affascinanti e in senso relativo forse meno conosciuti di Napoli, le Catacombe di San Gennaro a Capodimonte. Qui domina l’intreccio fra un luogo ai limiti dell’incredibile (si ha come l’impressione di un set cinematografico), la storia di un Rione, la Sanità, fra i più degradati della città e l’esperienza della Cooperativa La Paranza che dal 2006 ha saputo unire il riscatto e la crescita professionale dei giovani del posto con la diffusione della conoscenza di un sito unico. Nel racconto di uno dei ragazzi della Cooperativa che vi condurrà, come ad esempio Vincenzo Porzio, sarà difficile distinguere la descrizione storica, che parte dal nucleo originario del II secolo d.C., dall’anedottica degli scavi, in una certa parte coincidente con i lavori per la realizzazione del Metropolitana Linea 1, il quotidiano del contiguo Rione Sanità dall’esperienza della Cooperativa che, nel predisporre i percorsi ha messo a punto know how e tecnologie, quale quella dell’illuminazione di opere archeologiche, che successivamente hanno trovato utilizzo in altri siti. I confini continuano quindi a muoversi in una città a strati, dove il passato, dalla Neapolis greca ad oggi, fa continuamente capolino man mano che si scende nel sottosuolo. Un patrimonio artistico, quello custodito nelle Catacombe, che va dalle preesistenze pagane del II secolo d.C. alle pitture bizantine del IX-X secolo d.C. e che, caso unico al mondo per un sito del genere, è completamente privo di barriere architettoniche e quindi accessibile a tutti.

Anche perché se il patrimonio culturale non entra in relazione con la gente, declinando linguaggi diversi e parlando a tutti, rischia di morire, incapace di trasmettere senso e identità a una comunità.

Ed il modello di Rione Sanità e delle Catacombe di San Gennaro, ovvero il coinvolgimento dal basso soprattutto dei giovani, affinchè una valorizzazione ben concepita delle bellezze architettoniche o paesaggistiche sia occasione concreta di riscatto individuale e di crescita di un’identità collettiva sta prendendo piede anche in aree di Napoli e della Baia di Napoli sinora praticamente ignorate dal turismo. E’ il caso, ad esempio, della Chiesa di San Giovanni a Carbonara nel quartiere di Porta Capuana. E’ uno dei quartieri più popolari di Napoli: situato a ridosso delle mura aragonesi è stato per secoli il limite tra il dentro e il fuori, luogo di passaggio di visitatori, prima accoglienza dei viandanti. Ignorato anche oggi dai circuiti turistici dei grandi operatori, sta oggi attirando sempre maggior interesse grazie anche a soggetti come Food and Art, nati in loco e che con operatori quali Annachiara Autiero sono in grado di aprire nuovi scenari all’interesse di turisti e napoletani, proprio come richiesto dal progetto Baia di Napoli. Qui l’idea forte è quella di far leva sulle precipue caratteristiche di Porta Capuana sopra evidenziate. Il quartiere ne porta ancora oggi i segni sulla pelle: dall’imponente porta, al vicino mercato di Sant’Antonio Abate, ma più di tutto lo ricorda la sua cucina. E quindi i tour proposti includono degustazioni a testimonianza di un meticciato culinario succulento unite a visite di monumenti, quali appunto la Chiesa di San Giovanni a Carbonara, fuori da ogni tour classico pur essendo senza dubbio una delle più belle chiese d’Europa, come nessun altra in città in grado di rivelarci dettagliatamente gli elementi grazie ai quali si è reso possibile a Napoli il passaggio dal gotico al rinascimentale. Così come nello street food di Porta Capuana nella chiesa gli stili convivono , si intersecano e si sposano nella sobrietà di uno spazio dedicato alla celebrazione di alcuni dei personaggi più intriganti ed importanti della storia di Napoli. Ma questa nouvelle vague della narrazione del territorio ha preso piede anche al limitare sud della Baia di Napoli, a Portici, dove la Reggia, nel racconto di Irene Tedesco, viene non solo descritta nei suoi splendori, in parte restaurati e restituiti alla visione del visitatore e in parte no, ma anche inquadrata in un’area, quella dei Siti Reali, il cui valore storico e paesaggistico ha pochi pari in Italia. La Reggia di Portici rappresenta infatti il cuore di quel vastissimo progetto di ridisegno territoriale e di apertura del territorio metropolitano di Napoli che i Borbone portarono a termine a partire dal Settecento e che, in epoche successive, conobbe anche primati tecnologici quali l’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana, la Napoli-Portici. E gli storyteller vi condurranno appunto anche nel Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa, sorto laddove sorgeva il reale opificio borbonico, struttura concepita da Ferdinando II appunto quale fabbrica di locomotive a vapore. Un sito che, quasi completati imponenti lavori di ammodernamento, si avvia a diventare, a partire dalla primavera 2016, un importante polo non solo museale ma anche sede di eventi con una qualificata capacità ricettiva. Solo giovani appassionati come Irene Tedesco e i suoi colleghi di Siti Reali, sanno tracciare con sapienza il fil rouge che si dipana tra Regge diverse, il Museo Ferroviario, l’Orto botanico della Facoltà di Agraria , il Museo delle Macchine Agricole e un territorio segnato dal degrado sociale e ambientale. Territorio, che perlomeno in una sua parte, vuole far passare dalla voce narrante dei propri giovani un percorso di riscatto, quasi che i primati architettonici e tecnologici tramandati dal passato possano trainare, e in una piccola parte già lo stanno facendo, il recupero di quartieri segnati da decenni di incuria ed economia depressa. E’ un’onda lunga, questa dello storytelling, del turismo lento, della riscoperta di luoghi unici trascurati (spesso a causa dei problemi che il territorio presenta) che ha tratto parte della propria forza anche dall’opera di alcune Associazioni culturali nate nel centro di Napoli per iniziativa spesso di ambienti cosiddetti bene della città. E’ il caso, ad esempio, di Natakapa, che organizza oramai da alcuni anni le Passeggiate della Conoscenza  per far (ri)scoprire Napoli ai napoletani, e non solo a loro, in collaborazione con altre associazioni, archeologi, chiedendo ai direttori di alcune strutture o a letterati di diventare protagonisti di visite fuori dall’ordinario, seguendo la regola aurea di questa terra: intallio appunto ed emozione.  Mai di fretta, mai troppo seri, mai didascalici, mai distratti. E’ con questa chiave che Diana Negri, novella Shérazade e una delle fondatrici di Natakapa, ha fatto uscire dall’oblio in cui erano caduti luoghi magnifici e tremendamente evocativi, come Palazzo Sessa a Cappella Vecchia (anche sede della Sinagoga per la comunità ebraica di Napoli), Palazzo De Liguoro-Santoro, le scale del Moiariello, la Torre del Palasciano e il giardino di Babuk a Foria.

Bisogna che i monumenti cantino. È necessario che essi generino un vocabolario. 
Creino una relazione, contribuiscano a creare una società civile. 
La memoria storica infatti, non è un fondo immobile in grado di comunicare comunque, bisogna sapere come farla riaffiorare, va continuamente rinarrata. Anche perché se il patrimonio culturale non entra in relazione con la gente, declinando linguaggi diversi e parlando a tutti, rischia di morire, incapace di trasmettere senso e identità a una comunità.
(Paul Valery)

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Ferrarese di mezz'età da una vita trapiantato a Milano. Giornalista professionista, ha svolto la prima parte del suo percorso professionale nel campo del giornalismo economico, arrivando a dirigere per oltre dieci anni l'Agenzia di stampa Il Sole 24 Ore Radiocor. Successivamente ha diretto ufficio stampa o relazioni esterne per Telecom Italia, RAS e Unione Industriali di Napoli. Oggi alterna lunghi viaggi, prevalentemente in America Latina, a consulenze aziendali su identità, media relation, eventi, social media. Visitatore compulsivo di musei ha due pallini fissi: per l'arte classica Guido Reni e per quella moderna Piet Mondrian.

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