Il Duca Bianco è morto. Viva il Duca

David Bowie by Steve Schapiro - in Los Angeles, 1976

C’è un rock americano e c’è un rock inglese. La differenza non è meramente lessicale. I Beatles, Elton John e lui, David Robert Jones, il Duca Bianco, universalmente noto e celebrato come David Bowie, hanno generato uno stile autenticamente britannico. Meno ruvido e elettrico, più armonioso e sinfonico. Ugualmente incalzante. Bowie ne fu alfiere per tutta la prima fase della carriera, concependo pezzi come Heroes divenuti grandi classici della musica contemporanea – nonostante Guccini – (n.d.R.: Francesco, il cantautore bolognese, in un’intervista su Radio2, al programma radiofonico “Un giorno da pecora”, su David Bowie: “Non mi piaceva, ma non sono un grande ascoltatore di musica contemporanea”), per poi virare verso altre sonorità, come Let’s Dance, brano del 1983 dai bagliori disco, fino al rock dalle influenze più dure con l’esperienza nei Tin Machine.

Non ha vissuto molto, ma ha vissuto tanto. Un numero imprecisato di amori, non unicamente etero, un figlio da Iman, dea delle passarelle degli anni ottanta e una vastià siderale di successi musicali. David Bowie non ha conosciuto momenti di stanca creativa né cali di consensi. Ha attraversato come una cometa il firmamento musicale di quattro generazioni. Spesso dominandolo. Quasi sempre anticipandolo, molto più frequentemente definendone i canoni. David Silvian dei Japan, Simon Le Bon, Tony Hadley e Morgan in Italia, devono molto più di un disco e più di una carriera all’influenza sonora, al suo modo di stare sul palco, al timbro vocale inconfondibile dalla notevole estensione, all’eleganza insuperabile da dandy cui poteva opporsi con pari risultati il solo Bryan Ferry dei Roxy Music.

Le leggende non si raccontano. Si sognano, si seguono, e a volte si patiscono. Con perfida ironia si spegne solo pochi giorni dopo l’uscita di Blackstar, ultimo album contenente quel Lazarus che oggi didascalicamente viene percepito come un testamento musicale. Difficile da crederlo. Uno che da attore ha sempre prediletto parti in cui sarebbe morto perché affermava, era il solo modo di esorcizzare l’inevitabile. Ma non era immortale? Perché così li vediamo certi individui dalle ascendenze superumane, noi che mortali siamo. No, non lo era ma ci resta la facoltà di scegliere come ricordarlo anche attraverso una carriera parallela: quella dell’attore. Meno celebrata, parimenti alternata su luci e ombre e maggiori pause rispetto a quella musicale ma comunque sintomatica di una interdipendenza dallo spettacolo che travalicava l’esigenza di esserci.  Il suo titolo per definizione è L’Uomo che cadde sulla Terra, opera fantascientifica del 1976 di Nicolas Roeg. Quel Bowie era tutt’uno col suo personaggio, l’alieno Thomas Jerome Newton, che dal set si trasferiva suoi palchi in viaggi d’andata e ritorno. Lo Starman era un’avventura individuale che diventa generazionale. Sempre in bilico tra i due mondi, Bowie concilierà nuovamente musica e immagine ma con esiti opposti: è il 1986 e Julien Temple, il regista cult di videoclip, passa alla regia con Absolute Beginners. La cosa migliore del film, Patsy Kensit a parte, è il pezzo omonimo cantato dallo stesso Bowie. La star portò su grande schermo il suo gusto per i travestimenti: dai riccioli biondi di Absolute Beginners, alle fattezze da goblin in Labyrinth, all’immedesimazione perfettamente riuscita come Andy Warhol nel biopic Basquiat fino all’immagine glam di Zoolander. Come il clown che era l’altra faccia-maschera sotto cui nascondersi e mostrarsi al suo pubblico. Una dozzina di titoli formano la sua cinematografia articolata tra ruoli da protagonista e brevi apparizioni spaziando lungo tutto l’arco dei generi.  Scelte discutibili e cult movies. Di prove d’attore ne ha offerte non moltissime ma alcune di assoluto pregio. La più incisiva, neanche a dirlo, è quella del protagonista de L’Uomo che cadde sulla Terra ma lasciò il segno anche il suo ruolo in Furyo. Nobiltà e violenza, prevaricazione e omosessualità in un campo di prigionia giapponese sotto la direzione di Nagisa Oshima che lo contrappone a Ryuichi Sakamoto. Christiane F.  Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1981) resta una delle pagine più significative. Canto tossico e dolente di una generazione che trova un afflato di riscatto proprio in quel:

“Possiamo essere eroi. Almeno per un giorno.”

È un vampiro in The Hunger di Tony Scott, da noi uscito col titolo di Miriam si sveglis a  mezzanotte, dal film sarà tratta una serie televisiva che vedrà nella seconda stagione proprio il cantante-attore nelle vesti di presentatore. Nel 1985 è Colin Morris, killer spietato e maldestro a caccia di Jeff Goldblum e Michelle Pfeiffer in Tutto in una notte, commedia d’azione di un John Landis in gran forma.

Poco credibile ne Il mio west, improbabile western di Giovanni Veronesi, fu invece credibilissimo e altrettanto misterioso come Nikola Tesla in The Prestige, opera matura e impeccabile sulla metafisica e sull’inganno diretta da Cristhoper Nolan.

Bowie, come molti colleghi guardò dunque al cinema come ambito complementare alla musica, conciliandone spesso le esperienze, si pensi al lirico e potente This is not America, presente nella colonna sonora de Il Gioco del falco di John Schlesinger.

Non molti i progetti non portati in porto, anzi, forse l’unico che valga la pena di rimpiangere è il remake di A qualcuno piace caldo con Madonna e Mick Jagger, progetto che avrebbe dovuto vedere la luce sulla scia del duetto in Dance in the street proprio col leader dei Rolling Stones. Ma forse Bowie se n’è semplicemente andato. Non come Ziggy Stardust, che contrariamente alla convinzione comune che lo vorrebbe alieno, era invece un terrestre ma assieme a Presley e Morrison. E Barret e Waters e Lennon e Mercury: che risiedono un po’ irridenti  in quell’Iperuranio fatto di amplificatori, groupies, camere d’albergo demolite, liti furibonde,  concerti dalle folle oceaniche tra delirio e estasi, brani immortali, quelli sì. Un luogo dove la materia dei sogni è composta da vinile. O di Vinyl, come  la serie televisiva statunitense (creata da Terence Winter e prevista per il 2016 su HBO) che rende omaggio alle stelle del rock.

“Starman waiting in the sky he’d like to come and meet us…”

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Pier Luigi Manieri, curatore di eventi, scrittore, saggista e cultore della materia cinematografica. Ha dato alle stampe l'antologia di racconti spy, horror, sci fi, urban fantasy e a tematica supereroistica "Roma Special effects -di vampiri mutanti supereroi e altre storie" (PS ed.) e la monografia "La Regia di Frontiera di John Carpenter "( Elara). D'imminente pubblicazione il saggio "Le Guerre Stellari - Ovvero, la space opera cine televisiva da Lucas ad oggi" contenuta nel volume "Effetti Collaterali – la fantascienza tra letteratura, cinema e TV" (Elara). Ha all'attivo centinaia di articoli su diverse testate di settore. Esperto d'immaginario e sottoculture di genere, ha curato il volume, "Il Tuo capitolo finale" dedicato a Sherlock Holmes. È autore e regista dei reading video musicali “Iconico & Fantastico” e "Il cinema del telfoni bianchi". Ha ideato e curato eventi come Urania: stregati dalla Luna, Il cinema italiano al tempo della Dolce Vita, Effetti Speciali, MassArt, Radar-esploratori dell’immaginario.

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