Social Glitch. Estetica radicale e conseguenze di eventi estremi

Ines Doujak

“Il cielo sopra il porto aveva il colore
della televisione sintonizzata su un canale morto.”
W. Gibson

Social Glitch è un catalogo che nasce da una mostra nel Kunstraum Niederoesterreich curata da Sylvia Eckermann, Gerald Nestler e Maximilian Thoman.

Il Glitch è un errore. Quello che fece William Gibson in Il Neuromante, anno di grazia 1984, era prendere un elemento atmosferico appartenente alla cosiddetta realtà ed avvicinarlo, sovrapporlo, ad un media, ad un’immagine, proiezione, e cominciare a spostare il baricentro del tutto verso le sue più estreme conseguenze ovvero rendere macchina un cielo scuro ed, all’opposto, emozionale un segnale video assente. Così come il cielo sopra il porto potrebbe sembrare un errore, in realtà è soprattutto una finestra aperta sulle conseguenze di un determinato stato di cose, di una società, evento estremo che non avrebbe dovuto accadere ma invece è li, sotto forma di un glitch. Un malfunzionamento, dalla nascita immanente, che si impone in un flusso di dati (informazioni). Di base bisogna, però, immaginarselo come una interferenza, non periodica, all’interno di un’onda e per questo non prevista. Non un’estetica dell’errore quindi, ma un’estetica delle conseguenze possibili e nate dalle variazioni create casualmente. L’errore produce delle conseguenze, soggetti ed oggetti sono semplicemente agenti che cooperano l’uno con l’altro, interagiscono e producono dei fatti. Un’estetica delle conseguenze.

Dice Gerald Nestler, uno dei curatori di questa esposizione:

“Interessante è la domanda dove portino le conseguenze, dove si possa arrivare seguendo le conseguenze, su questo si sofferma il mio fuoco ed interesse”,  “in una certa radicalità che porti fino alle radici, fin dove arrivino le conseguenze, con quale estetica si procede e quale estetica venga prodotta fino alla tappa ultima di questo percorso.”

Abito scuro, t-shirt scura, neri entrambi, Gerald veste quella che qui a Vienna è l’uniforme con cui si propongono al pubblico architetti, filosofi, artisti quando sono anche degli intellettuali, nel suo caso, però, ha più l’aspetto di un investigatore.

Il Glitch esprime in questo contesto una radicale ed intrinseca necessità espressa da un sistema di negarne  la sua invincibilità e perfezione, un moto di rivoluzione nei confronti dell’architettura elettronica ed abilità ingenieristica dei media e della tecnologia. L’errore apre in questo modo una finestra sul dietro le quinte o se si vuole dietro lo specchio di un determinato sistema, su panorami e paesaggi non pensati per essere visti dal pubblico e per questo non idonei al proseguimento del programma stabilito. Lo sviluppo social di tutto ciò avviene nel momento in cui quelle finestre portano alla luce ed alla attenzione della società le conseguenze della presenza di errori. La differenza del campo d’azione per gli artisti di oggi, rispetto alla tematizzazione dell’errore fatta dagli anni ’60 in poi, è l’attenzione verso le loro conseguenze.

Questo è il percorso sul quale si muove, in modo particolare, la società attuale risvegliata la sua attenzione alla possibilità che esistano, si rivelino e dove portino le conseguenze delle nostre azioni.

“A me interessa quella radicalità negli artisti che li porti ad arrivare fino alle estreme conseguenze, in modi e metodi diversi, nel concettualizzare e mettere a fuoco una percezione dei cambiamenti culturali, sociali e politici.”

Questi artisti hanno ricercato e sviluppato un mezzo narrativo e performativo per creare esperimenti, visualizzazioni, fondate su ricerche reali o interpretazioni di circostanze concrete. Li accomuna, nella loro diversità, una partecipazione attiva ed un interesse radicale nella profondità nascosta dei cambiamenti visibili o meno che ci circondano, insieme con un interesse nel perseguire una maggiore chiarezza nei dettagli del mondo intorno a noi e strumenti maggiori per conoscerlo.

“I codici informatici sono all’origine di qualsiasi materiale visivo utilizzato nella scienza, nell’arte e nell’architettura; sono da supporto all’economia ed alla politica, facilitano i social media e la comunicazione, definiscono la nuova estetica degli algoritmi; il loro operare discreto stabilisce tutti i parametri dei mezzi da noi usati e la loro ottimizzazione, naturalmente anche i loro errori o eventi inaspettati.” 

Questi errori, facendo un passo indietro, nei tessuti elettrici prima ed elettronici dopo, hanno cominciato fin dagli anni ’60 ad essere oggetto e protagonista di performances ed opere dell’avanguardia artistica e sperimentale. Il glitch diventa social nel momento in cui gli eventi di disturbo risveglino l’interesse della collettività, della società, nei confronti di particolari attività o manifestazioni e, di conseguenza, quegli artisti la cui estetica radicalmente critica li tematizzi ed affronti. I curatori hanno creato la terminologia Social Glitch anche per dare una continuità a tutti gli eventi, le manifestazioni e le opere che siano state protagoniste negli ultimi decenni, come mostrato nel bel screening Tracing Information Society – A Technopolitics Timeline (2015) dei Technopolitics.

Il catalogo e la mostra sono un insieme di estetiche diverse e di come queste potessero convivere e sostenersi in un insieme.

La differenza tra Glitch e Bug è quella che il primo consente non solo il funzionamento ma potrebbe produrne un inatteso vantaggio mentre il secondo ne inficia il funzionamento. Gli artisti che si muovono in questo contesto delimitato dal glitch sono alla ricerca di un piano di lavoro dove, con ironia o attraverso l’ausilio della ricerca, si possa avere una visualizzazione ed interpretazione della realtà fattuale che ci circonda. Sono accomunati da una certa forma di attivismo e radicale interesse nei cambiamenti che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi e come questi vengano gestiti dal potere.

La critica estetica e la ricerca. Come si costruisce uno spazio seguendo queste logiche.

“Se uno si vuole confrontare in modo serio con qualcosa, sicuramente deve procedere con una certa intensità, investire energie e tempo, non esistono tematiche affrontabili in 5 minuti, in questo senso non considero le cose difficili ma secondo una scala di intensità. Da qui si ricercano delle soluzioni per uno spazio che non son mai frutto del caso ma di tempo investito nella loro ricerca e poi il pubblico potrà dire se piacciano o meno. Per me curare un progetto, un’esposizione, significa portare degli oggetti e creare un insieme, poi si arriverà sempre li dove uno non avrebbe pensato di arrivare, in qualche modo, la sorpresa sarà vedere come le cose interagiranno tra loro, quali saranno quelle parole inespresse che si creeranno nel mezzo. La cosa più bella in assoluto è quando l’opera che porti in giro alla ricerca del suo spazio, finisca per infilarsi esattamente lì dove sarebbe sempre dovuta essere, il luogo dove possa comunicare con le opere vicine. Nella nostra sala, qui, è nato un percorso vero e proprio che il visitatore seguirà costruendo la propria esperienza di partecipazione.”

Così come il lavoro svolto dai Technopolitics, un collettivo composto da artisti provenienti da varie aree di interesse; il risultato: una timeline dove gli eventi si susseguano in maniera cronologica, affiancando interdisciplinariamente  guerre e tecnologie che siano risultate decisive per il mondo, la realtà e la società in cui viviamo oggi. Il lavoro di Harun Farocki (1944-2014), Serious Games 1: Watson is Down  si svolge su due livelli, due proiezioni di video, in una vediamo l’ambientazione di un videogame di guerra, nell’altra dei soldati reali che seguono una missione su dei monitors in quella che sembra una sala di controllo, realtà ed estetica della finzione fianco a fianco, 4 marines, membri dell’equipaggio di un tank, filmati alla Base di 29 Palms in California, le immagini di una missione in Afghanistan sono una simulazione creata su dati reali raccolti sul posto in modo molto dettagliato: la strada riproduce fedelmente quella esistente, alberi, vegetazione e montagne come sul posto, la polvere che si alza dalle strade e la sua mancanza quando si viaggia tra la vegetazione; nonostante tutti i dati reali presenti, morire continua a rimanere simile a quello che avviene in un videogioco. Gerald Nestler racconta come esista una cosiddetta Drone Wars dove vengano raccolti, con metodi forensi, i dati di tutte le operazioni militari US fatte con l’uso di droni: quale era sul posto, chi ha sparato cosa e quando, i danni creati compresi i cosiddetti danni collaterali (circa il 70% del totale), per potersi tutelare in caso si dovesse finire davanti ad un tribunale perché accusati di qualche abuso della violenza non necessario, quindi, e questo è importante, i dati vengono raccolti con la specifica funzione del loro uso in sede legale. Sempre il curatore ci dice:

“Dal nostro punto di vista, qui entra, nel gioco dell’estetica dell’errore, l’aspetto social del glitch, ovvero nelle conseguenze e nella loro elaborazione che si renda poi necessaria”.

Sia che si tratti della superficie del pianeta o delle sue viscere, anche unite insieme, come nell’opera di Mathias Kessler Hidden Agendas: Jarrells Cemetery, N37º53.96′ W81º34.71′, Eunice Mountain, West Virginia (2012), che utilizzando un algoritmo militare monta insieme le immagini aeree scattate da lui stesso creando delle mappature discontinue od elaborate dal programma. Le miniere del carbone del West Virginia vengono in questo modo esposte in tutta la loro durezza, dove il glitch si annida nella manipolazione diretta, dell’autore, così come indiretta, del software. Kessler ci mostra come l’uomo, a differenza di quello che intuitivamente si possa pensare, con la sua mano sia in grado di forzare o addirittura riscrivere interi paesaggi: ormai divenuta pratica il rimuovere, con l’uso della dinamite, interi pendii o costoni per poter accedere in maniera più diretta alle cave di carbone. Da qui il lavoro dell’artista nel dare l’aspetto di una cartografia inesistente alla regione, formata da proprie fotografie che mettono in evidenza lo scempio creato dall’uomo al fine del bisogno energetico crescente.

“Nella nostra ricerca eravamo interessati alle conseguenze, come già detto, del glitch ma ancora di più in una forma di radicalità e militanza degli artisti che non si fermi alla produzione di un’opera.”

Infatti, Mathias Kessler ormai da tempo si reca nella cittadina di Matewan il 19 di maggio, dove si svolge ogni anno una rappresentazione in memoria del Massacro di Matewan del 1920 che vide fronteggiarsi poliziotti privati mandati dalla Compagnia del carbone e lo sceriffo del luogo al fianco dei minatori che cominciavano ad organizzarsi in sindacati. Accluso il video girato dall’artista in cui vengono avvicinati i diversi livelli narrativi esistenti sul massacro: il film di Hollywood Matewan del 1987, la rappresentazione annuale messa in scena per ricordarlo e il proprio materiale girato sul posto. In realtà Kessler ha anche creato un gruppo di attivisti che porti avanti le tematiche del posto, creando una piccola economia in un luogo che è di per se molto povero.

Continuando su questa linea abbiamo Nabil Ahmed, un artista attivo sul fronte dei cambiamenti climatici, ha presentato un lavoro dal titolo Ring of Fire, (2015), una vasta area del Pacifico cosi denominata per il gran numero di terremoti ed eruzioni vulcaniche, lungo la quale, nella parte ovest di Papua Nuova Guinea si trova una delle più grandi miniere del globo. La particolarità dell’opera presentata sta nel fatto che una immagine satellitare della regione non esiste o meglio non sarebbe possibile scattarla poiché la zona, a causa dell’inquinamento globale, è costantemente coperta da una fitta coltre di nubi, la foto è stata prodotta mettendo insieme 199 immagini satellitari, o meglio i dettagli visibili di volta in volta, scattate tra il 1987-2014 e ricrearne così, artificialmente, una visione unica.

Le parole dell’artista:

“Nell’Inghilterra vittoriana i criminali si muovevano coperti dal fumo delle industrie, nebbia e luce a gas. Oggi in una delle zone più ricche di nuvole del pianeta le multinazionali minerarie inquinano sotto la loro copertura, delle nubi, usando come alibi le condizioni climatiche”, 

Godofredo Pereira, un architetto, si è occupato, sempre in ambito di risorse energetiche, invece, della terminologia nonché classificazione giuridica secondo gli standard internazionali delle risorse presenti nell’area dell’Orinoco Oil Belt in Venezuela. Le riserve sotterranee di idrocarburi di questa vasta area venezuelana son diventate il punto di svolta simbolico e non della scalata del Presidente Hugo Chavez al potere e con quello alla ricchezza. I governi precedenti al suo avevano sempre considerato il bitume come una miscela di idrocarburi di una certa importanza sul mercato ma Chavez perseguendo un cambio di definizione delle risorse della zona in Olio combustibile pesante e soprattutto attraverso la ri-nazionalizzazione delle aziende di estrazione, si assicura profitti molto superiori. Il lavoro di Pereira vuole mostrare come un cambiamento di classificazione di prodotti petroliferi lavorati possa, in un’economia globale basata sul petrolio, rendere le risorse economiche necessarie, nel caso di Chavez, per portare avanti la Rivoluzione Bolivariana ovvero perseguire l’indipendenza dei paesi sudamericani dall’imperialismo europeo-nordamericano. Per capire l’interesse dell’architetto Pereira ed avere la giusta chiave di accesso al suo lavoro bisogna pensare, secondo la sua ottica, al contrapporsi della povertà di chi abita sopra il suolo venezuelano con le ricchezze che abitano, invece, il suo sottosuolo; l’artista si muove parallelamente mostrando i mezzi usati da Chavez per combattere il sistema insieme con un piglio critico nei confronti del Presidente stesso.  Il piglio critico verso il potere lo possiede sicuramente anche Marc Lombardi, il quale in George W. Bush Harken Energy and Jackson Stephens mette in scena, in uno schizzo, i collegamenti e le relazioni possibili tra la famiglia Bush, l’industria del petrolio, la guerra del Kuwait ed i finanziamenti del clan dei Bin Laden. Costruire un grafico in cui mettere sotto gli occhi di tutti il frutto di una sua attenta ricerca, uno dei primi artisti a farlo: raccolta sistematica di dati ed informazioni che, forse, non potranno superare la prova di un tribunale ma vogliono essere prima di tutto simbolici, opera d’arte ed estremamente avvincenti. La prima stesura di quest’opera è del 1979, si parla di Bush padre infatti, gran lunga prima che venga l’11 settembre; dopo la morte dell’artista nel 2000 l’FBI si interessò ai suoi lavori, studiando i diagrammi tracciati da Lombardi e cercando di ricostruirne le basi reali. Nuovamente la forza visionaria unita alla capacità di una cacciatore di seguire la preda porta alla scoperta delle estreme conseguenze.

Nel campo delle ricerche si muove anche Ayesha Hameed (CA/GB) ed il suo lavoro A Rough History (of the destruction of fingerprints), 2015, sulla codificazione delle informazioni su noi tutti acquisite attraverso le impronte digitali, i protagonisti di questo film in 16mm cercano, con la loro distruzione, di riprendersi la libertà. Il tema affrontato è quello della riconoscibilità e di conseguenza della schedatura di chiunque venga da un paese indesiderato, questione ritornata estremamente d’attualità con il flusso migratorio dai paesi in guerra, ovvero: se attraverso la cancellazione delle impronte, ovvero negando un accesso all’identità, si sia veramente al sicuro. Si ripresenta anche in questo caso la tematica delle conseguenze di un atto, eccezione, “errore” se si vuole, alla “normalità”.

“Non ci interessava, qui, le problematiche dei migranti per se stesse ma tutta la realtà legata al possesso e circolazione delle informazioni sull’identità di chiunque, all’uso che se ne potrebbe fare ed, in quanto dati che fluiscono, ovviamente porci la domanda: a quali eventi porterebbe la presenza di eventuali falle o glitch nel sistema?”

Del corpo si parla anche con Christina Goestl (AT) ed il suo Shift, Whole Body Experience Fragments, 2013-2015, sull’oggetto-corpo nei dettagli ed i tentativi di cambiarlo attraverso la chirurgia plastica, un esempio diverso rispetto alla realtà dei migranti ma, in fondo, argomenti simili: quali particolari definiscano un corpo? Il corpo viene visto secondo le diverse necessità di chi lo abiti come un luogo passibile di variazioni violente o meno in accordo ad un principio di identità la cui linea di demarcazione tra amico e nemico sia molto, troppo sottile. Interessanti le tematiche che ne discendono, il sistema di riconoscimento o irriconoscimento di una identità attraverso i suoi elementi identificativi. Ines Doujak e John Barker (AT/GB) con 06 Kriminalaffe, 2015, si sono confrontati con il concetto di identità e la relazione tra l’uomo e la scimmia, cosa sia l’uomo, cosa lo definisca, e cosa l’animale o la scimmia, se tutto l’Umanesimo non sia qualcosa di troppo limitato, se i diritti dell’uomo non si renda necessario estenderli anche agli animali. Nel campo così ampio della definizione di identità si muove anche il lavoro di Lawrence Abu Hamdan (LB/GB) The Whole Truth, 2012, sull’utilizzo di analizzatori della voce come macchine della verità, da parte dei governi di diversi paesi, negli ambiti più diversi: dalle frontiere e l’emigrazione a quello militare, fino alle compagnie assicurative. Il tono, l’inclinazione, qualsiasi aspetto della voce diviene un mezzo per misurare i livelli di stress od il carico emozionale, un vettore per poter osservare il corpo e le sue reazioni, analizzarle. Hamdan è uno dei pochi a concentrare le sue ricerche sui suoni, si occupò in un’altra opera dei software utilizzati dalla polizia per riconoscere dal tono di voce la provenienza dei migranti, possibili errori erano frequenti e le conseguenze difficili da gestire. L’informazione è il fulcro della realtà in cui viviamo, su di essa si fondano interi imperi economici, estremamente importante ma instabile come dimostra Ubermorgen (USA/CH/AT) nel suo lavoro Killlist, 2015, liberamente ispirato dalle liste nere dei servizi segreti americani, dove in uno speciale circuito criptato viaggiano i nomi dei terroristi facenti parte della suddetta lista, basta però interromperne la fluidità ospitante, ovvero il flusso di informazioni per vederne distrutto il contenuto, questo, almeno, è quello che succede nell’installazione. Quattro “hardwares” connesse tra loro, comunicano il contenuto della Killist, se viene fermato il movimento, il fluire, si distruggeranno i nomi. In questo caso il Glitch non è presente ma in agguato, metafora che diviene contenuto dell’estrema volatilità delle informazioni oggi. L’errore è oggetto e soggetto contemporaneamente. La connessione tra le due cose è evidente appena si entra nella sala espositiva in Singularium, 2015, di Sylvia Eckermann (AT), ovvero l’osservazione dell’osservatore. Rappresenta, Singularium, l’anello di connessione tra tutte le opere comprese in questo catalogo, nonché il primo e l’ultimo tassello di tutta questa investigazione. Noi tutti siamo osservati e misurati, tutte le misurazioni vengono messe insieme e creano degli standard che servono poi a definirci. Vi suona come qualcosa che si rivolti contro se stesso? Ebbene si, questo è anche ciò che contiene quell’enorme casco che costituisce l’installazione della Eckermann, parte del team curatoriale insieme al su citato Gerald Nestler e Maximilian Thoman. Un globo rivoltato interno-esterno sotto forma di un grande casco da realtà virtuale, una volta entrati ci ritroveremo da osservare noi stessi da lontano come degli estranei, producendo una massa di dati che una volta allontanatisi diventeranno a noi estranei. La singolarità che ci contraddistingue viene suddivisa in dati e numeri, valutati successivamente per diventare degli standards, la nostra unica possibilità di salvezza potrebbe risiedere proprio nel glitch.

 

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Dario Lombardi nasce a Roma, si diploma all’Istituto Superiore di Fotografia. Vive e lavora a Vienna come freelance. Ha affrontato diversi generi nella sua professione, dalla fotografia di scena, teatro e danza, passando per la moda ed arrivando al ritratto. Si confronta negli ultimi lavori con la tematica dell’essere umano ed il suo rapporto con il contesto in cui vive. Nel 2008 espone “Hinsichtlich”, reportage sulla donna che veste il velo come scelta religiosa e come confine tra la sfera privata e pubblica. Nel 2009 pubblica insieme con Gianluca Amadei una serie di interviste e ritratti sulla scena professionale ed artistica dei designers in Polonia, dal titolo “Discovering Women in Polish Design”. Attualmente si occupa della mostra-installazione “Timensions” per il Singapore Art Museum 2012, una ricerca sul rapporto tra l’uomo e lo spazio/tempo.

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