McLeod Ganj. Dove ancora danzano le dee e i demoni

McLeod Ganj Map
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Strana ed estranea la sensazione che mi prende ogni volta che leggo i racconti dei viaggiatori di McLeod Ganj, che nell’ultimo decennio è passata da meta di vacanze “aristofreak” ad essere una sorta di Rimini dell’immaginario europeo sul Tibet.
Mentre leggo di pizzerie, pub, ristorantini macrobiotici e boutiques di indumenti tibetan-chic, rivedo le due strade fangose che si dipartono dalla piazza affacciata su una vallata incuneata fra nebbia e cielo che conduce lo sguardo lontano e ripido fra cime di abeti e voli d’avvoltoi che roteano sulle carcasse dei camion precipitati nella scarpata.
Ad ogni curva un sobbalzo, un vuoto nel cuore e lo strombazzare di clacson indiani. Horn please.

McLeod Ganj, la residenza del Dalai Lama, la sede dell’Istituto di Medicina ed Astrologia, di quello delle Arti Performative e di decine di altri pezzi di Tibet portati in esilio. Brillano le pozzanghere nella strada fangosa solcata da piedi e zoccoli e ruote di qualche sperduto microtaxi. S’aprono qui e là, negli edifici di mattoni malfermi, porte verdi, azzurre, decorate o grandi vetrine che svelano oggetti sconosciuti, ciotole sonore, argenti, tanka di seta dipinti ad acquerello con i loro Buddha, le danzanti dee buone ed i demoni rossi e dentati.

Seminascosta da una tenda, la bottega del sarto si apre a chiuque voglia farsi un vestito tradizionale su misura. Di lana o di seta o di cotone. Il sarto dai capelli impomatati ed i baffi scuri ben curati mostra stoffe e modelli da dietro la sua macchina per cucire. Quasi un trono.

A fianco il Rising Horizon Cafè dove, sulle panche di legno, accanto all’immancabile chai (te al latte) è possibile bere anche un black tea, un te nero. Come piace agli stranieri. E di stranieri ce ne sono molti; quasi tutti americani o del nord Europa. Studiano i testi sacri del buddhismo o la lingua tibetana. Altri imparano a disegnare il pantheon del buddhismo. La loro giornata si spiega nella vallata al di sotto del tempio del Dalai Lama ed a sera siedono a bere un te col burro, una birra o soltanto a chiacchierare e giocare a dadi nel ristorantino di Wang Too: “Mio nome è facile, è come dire uno e due… si pronuncia uan tuu” e ride il proprietario del Green Hotel che un po’ ricorda un Hotel California di montagna.

I tibetani vestono abiti tradizionali. Gli uomini hanno giacche dalle maniche lunghissime a chimono che portano ripiegate e all’interno delle quali nascondono i loro tesori e qualche segreto. Le ragazze indossano uno scamiciato di colore scuro con camicie morbide e colorate. Tutte hanno una specie di grembiule a righe orizzontali. I colori delle righe cambiano a seconda che la donna sia o meno sposata; ma la cosa più bella sono le loro acconciature fatte di treccie portate sciolte o annodate, il più delle volte intrecciate con nastri multicolori.

E poi ci sono le scimmie che si lanciano dai tetti e scippano qualunque cosa di commestibile si abbia fra le mani ed i monaci che si radunano per affascianti dibattiti di filosofia e religione affermando le loro idee con un battere delle mani. E le ruote della preghiera, i mulinelli, i monaci Gyoto che esprimono la loro devozione col canto armonico, le musiche che guariscono, i monaci bambini, la jeep Cherokee giallo uovo del Dalai Lama, lo Shiva Cafè nascosto fra le piante di marijuana, gli yak, le minestre brodose, il pane che sembra una meringa ed il burro battuto a mano in sottili ed alti cilindri di legno.

Niente aristofreakchic, nessuno shopping new age, nè, tanto meno, buddhismo della domenica, ma una bancarella di argenti ed anticaglie accanto alla quale sedeva il cavadenti col suo tappetino macchiato, steso sulla terra polverosa sul quale erano poggiati con cura strumenti, lozioni e denti già estratti e, lungo i sentieri dei boschi, giovani Ranger in divisa simili a boy scout in fila per uno.

E l’ultimo porta sempre con sé la teiera per tutti.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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