Free Home University, incontri polifonici per un ritrovato linguaggio del corpo

Indossiamo la maschera che ghigna e mente
ci nasconde le guance e ombreggia i nostri occhi,
questo debito che paghiamo per l’inganno umano;
con i cuori rotti e sanguinanti abbiamo sorriso,
nella bocca una miriade di sfumature.
Paul Laurence Dunbar

La luce sulle pietre bianche leccesi risplende ancora di più nei mesi invernali.

In una casa a due piani, appena fuori le mura del centro, fatta di grandi tufi di pietra e con un alto cancello di ferro, si trova la sede dell’Ammirato Culture House (http://www.ammiratoculturehouse.org/), luogo dedicato alle arti e alla cultura, di respiro internazionale e in questo mese di dicembre, ancora una volta, spazio d’incontro e scambio per il programma di ricerca e studio a cura della Free Home University (FHU). Oltrepassata la soglia, nella corte quadrata al cospetto dello Scipione Ammirato, issato imponente su un piedistallo di roccia, mi vengono incontro alcuni ragazzi e ragazze. Sono brasiliani, croate, canadesi (anche nativi), americani, italiane e Alessandra Pomarico, curatrice-tutor-facilitatrice-anello di congiunzione, insieme a Alissa Firth Eagland e l’associazione Musagetes (Canada), di questa seconda ampia sessione della FHU.

Nel definire questa university -esperimento pedagogico e artistico nato nel 2013- viene naturale pensare a proposte di educazione alternativa e sperimentale che, partendo da una prospettiva artistica e da un intento di ripensare la pedagogia, in passato hanno cercato di dare ossigeno a metodologie di studio tradizionali, sostituendo l’abituale rapporto frontale maestro-discepolo con un impianto trasversale e aperto, non verticistico, fatto di esperienze dirette, attività pratiche, conversazioni e riscontri nella società e nella dimensione della  vita quotidiana. Anche nel nome torna alla memoria la Free International University fondata da Joseph Beuys e dallo scrittore Einrich Böll, un luogo dove la creatività era posta al centro della vita di tutti i membri della società e non più caratteristica individuale di pochi, dove la sfera artistica, politica e sociale venivano a intrecciarsi nella ricerca di un arricchimento individuale.  Così anche esempi d’oltreoceano come il Black Mountain College, in California, d’impianto più artistico e le proposte di Tim Rollins per nuovi percorsi relazionali di scambio creativo diffusi tra i ragazzi del Bronx a New York, sembrano quasi uno spunto alle ricerche promosse in questo angolo di Puglia: anche qui scopriamo un’impostazione multidisciplinare, l’enfasi sul produrre “inchieste”, innescare processi, dare attenzione al momento collettivo di creazione,  nell’intento di generare comunità temporanee di apprendimento, in cui la conoscenza risulti dall’incontro tra persone, contesti, nuove problematiche.

L’atmosfera comunitaria nella quale qui si lavora fa sì che i partecipanti si mettano in gioco nell’affrontare e analizzare temi che li riguardano da vicino e che mirano ad approfondire nella condivisione con gli altri. Così, già nella prima giornata, mi appare chiaro come esista una programmazione giornaliera e fluida che, in ogni sua parte, raccoglie i desideri, le urgenze o i dubbi di ognuno. Le mattinate si aprono con le “News”: a turno ogni partecipante porta all’attenzione un fatto o argomento che interessa il paese d’origine o il suo lavoro. Gli argomenti sono i più vari, ma come in un gioco di elastici, alla fine la matassa si districa e in tutti si rintracciano dinamiche relazionali, difficili episodi d’integrazione, tensioni vissute da alcune comunità all’interno della società di cui fanno parte o delicati contesti politici che minano la libertà di espressione o di crescita.

Durante una di queste mattine conosco Rzgar, ragazzo kurdo irakeno, arrivato qui negli anni scorsi, oggi beneficiario del programma di protezione richiedenti asilo  Sprar Gus di Castrì (Lecce), che propone un collegamento con il suo paese e un gruppo di uomini impegnati a scrivere la prima Costituzione del Kurdistan. In un altro momento, dopo aver visto insieme alcune testimonianze video, approfondisco anche la situazione nella quale vive la comunità omossessuale di paesi come la Turchia e l’Iran e, da questi racconti, si aprono più ampie riflessioni sul riconoscimento dell’identità sessuale per il singolo individuo e da parte della società nella quale vive. La consapevolezza del proprio corpo e del linguaggio legato al movimento, con il quale si esprime la danza e il teatro (penso innanzitutto ai percorsi sperimentali del Living Theater o alle performance di Marina Abramovich, dopo aver visto il video Macaquinhos, proposto da Mavi, brasiliano/a che risiede Bruxelles), sono al centro di queste giornate di studi. La classe della FHU formatasi lo scorso anno, ha affrontato temi inerenti al bene comune, all’uso del territorio e al ciclo di produzione alimentare, ha esplorato il tema della rappresentazione, soffermandosi sull’immagine e il linguaggio (e in alcuni casi sul loro fallimento e rifiuto), in collaborazione con artisti quali Ayreen Anastas e Rene Gabri, Lu Cafausu (Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti, Luigi Presicce), Adrian Paci, Luigi Coppola, Johanna Dehio e  Alex Roemer -che si occuperà quest’anno di progettare in maniera collaborativa un utilizzo sociale del giardinetto pubblico adiacente ad Ammirato Culture House (www.constructlab.org).  Se nel 2014 la ricerca è stata guidata anche da lettura e discussione di molti testi, quindi da un approccio più intellettuale e filosofico, nel 2015 si è voluto partire dal  corpo e dalla conoscenza che esso produce, così come si è cercato di lavorare sui concetti di solidarietà e collettività attraverso pratiche di “embodiment”, “incorporando” in senso letterale le questioni affrontate. Seguendo questa linea, tracciata abilmente da Micheal Robertson, attivista e artista del collettivo Ultra-red, vengo introdotta alla tradizione delle Ballroom (case da ballo) americane, oggetto in queste FHU di un’analisi storica, culturale e performativa, e alla danza voguing nata al loro interno. Questo linguaggio è qui a Lecce presentato da Pony Zion, originario del Bronx e vera “leggenda” (categoria guadagnata dopo aver vinto diverse competizioni), di questo stile. Il voguing è una delle categorie in cui ci si sfida, durante il ballo organizzato nelle Houses of Ballroom, luoghi protetti e di mutual solidarietà in cui si riunivano la comunità gay e transgender, ispaniche e di colore, nate a New York durante la Harlem Renaissence e diventate punto di riferimento per una comunità spesso stigmatizzata (e repressa:  gli Stati Uniti sono secondi solo al Sud Africa per il tasso di omicidi di donne e uomini trans).

Nei movimenti, nella gestualità e nel portamento –che si osservano durante queste sfide, si nasconde (almeno fino ad oggi ai miei occhi) una serie di segnali e riferimenti che raccontano questa comunità, che intorno al corpo ha costruito una nuova e inedita forma di linguaggio creativo. Al corpo ora torna a essere affidata la comunicazione e, in queste performance, il senso del collettivo è rappresentato dal singolo che si mette in mostra, orgoglioso e fiero di esporsi al suo pubblico. In questi movimenti si riconosce una dichiarazione di presenza e di appartenenza che giunge molto più direttamente e con forza rispetto a qualsiasi genere di discorso o testo scritto. Una vera e propria celebrazione del corpo, delle sue caratteristiche, delle sue capacità e possibilità e Pony, attraverso dimostrazioni e pratici esercizi che coinvolgono i presenti, stimola diverse riflessioni su queste danze che rappresentano una vera e propria “forma di resilienza e di lotta”.

Il voguing guadagnò grande attenzione con il discusso documentario Paris is Burning, film manifesto che il gruppo delle Free Home University visiona e analizza e che, se in parte spiega e rende leggibile questa comunità, è da essa tutt’ora criticato per via dell’appropriazione culturale operata dalla regista, una ragazza bianca studentessa della NYU che finirà per vendere il film alla Miramax senza citare o restituire nulla alla comunità che era il soggetto, oltre che l’oggetto, del suo documentario.

Proprio con questo scrupolo il gruppo della Free Home University si è avvicinato alla proposta avanzata da Pony di realizzare un ballo a coronamento e completamento dello studio affrontato. We wear the mask, diventa il tema principale, che lega lo studio di questo linguaggio anche alla tradizione e ricerca estetica legata al travestimento, al mascheramento, allo sdoppiamento del sé, che si ritrova nelle varie funzioni attribuite alla maschera: teatrale, rituale, protettiva, filtro. Oltre al voguing e alla sfilata di moda, classiche categorie delle ball room houses, se ne inventano altre appropriate al momento: campagna di giustizia sociale, spettatore meglio vestito (includendo il pubblico nel gioco), maschere (a seguito di un laboratorio di  maschere curato da un membro del collettivo artistico russo C’to Delat, amima della School of Engaged Art di San Pietroburgo), e cartoline da qui ed ora e dall’altrove.

La conoscenza della portata immaginifica e politica dell’universo delle case da ballo non sarebbe stata possibile senza la contestualizzazione storica di Michael Roberston, che sulle Ballroom tiene un corso alla New School di New York insieme a Robert Sember e con lui presente nel collettivo Ultra-red, gruppo internazionale che opera nell’intersezione tra sound art e politica.

Ultra-red, da oltre vent’anni, attraverso un approccio pedagogico che utilizza l’ascolto come metodologia d’investigazione del sociale per identificare battaglie politiche e altre modalità di processi collettivi, mette in discussione la divisione binaria tra estetica e politica. Qui alla FHU la riflessione si è costruita anche attraverso passeggiate sonore, guidate dal gruppo di richiedenti asilo nella città di Lecce a identificare luoghi di lotta e solidarietà, seguite da commenti e discussioni e da varie esercitazioni di  ascolto e commento di “oggetti sonori” portati dai partecipanti che rispondevano all’invito: qual’è il suono delle libertà?, per poi continuare nell’esplorare  qual’è il suono della giustizia?”.  Una piccola pubblicazione (con registrazioni incluse) a cura dell’associazione Viaindustriae publishing, offre un’interessante lettura della ricerca  di questo collettivo americano e presenta nuove ipotesi di indagini sonore proposte da dieci nuovi artisti (http://www.viaindustriae.it/temporanea/?p=265).

Le riflessioni si arricchiscono delle testimonianze di altri personaggi che si uniscono al percorso intrapreso nei giorni successivi. Tra questi l’artista Maria Pecchioli porta in visione il suo ultimo lavoro, primo lungometraggio e opera di estrema sensibilità e onestà, dal titolo Lei disse sì, negli stessi giorni presentato all’interno della programmazione del Salento LGBT Rainbow Festival: la storia di due donne che per unirsi in matrimonio intraprendono un viaggio verso la Svezia, seguite da amici e parenti che passo dopo passo portano testimonianza dell’amore tra le due protagoniste. Altri ospiti e contributi importanti sono stati quelli di Frank Roberts uno dei fondatori dei Black Lives Matter, movimento contro la violenza della polizia sulle comunità nere, anche lui attento alle questioni pedagogiche che porterà avanti nella nascente scuola di attivismo e giustizia sociale chiamata For Freedom Sake, e Todd Lestler curatore del progetto Lanchonetes, residenza per artisti impegnati  nel sociale a Sao Paulo, ultimamente impegnati nella creazione di Queer City sostenuta anche dalla stessa Musagetes.

Un mese intenso d’incontri, dibattiti, vita comunitaria e conviviale, letture collettive, visioni di film, discussioni e scambio di conoscenze, alternandosi ai fornelli e visitando luoghi salienti per la ricerca nel Salento, periodo che, una volta terminato, lascerà in ogni partecipante nuovi punti di partenza e nuove idee da approfondire. Tra i meriti più grandi della Free Home University sono da riconoscersi proprio queste possibilità di confronto comune tra esponenti di paesi e culture diverse, che, dopo aver lavorato insieme a tessere fili di contatto, potranno lavorare per mantenerli attivi, come già accaduto in passato, intraprendendo nuove collaborazioni e percorsi di ricerche artistiche comuni.

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Francesca Campli ha una laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio artistico e una specialistica in Arte Contemporanea con una tesi sul rapporto tra disegno e video. La sua predilizione per linguaggi artistici contemporanei abbatte i confini tra le diverse discipline, portando avanti ricerche che si legano ogni volta a precisi territori e situazioni. La passione per la comunicazione e per il continuo confronto si traducono nelle eterogenee attività che pratica, spaziando dal ruolo di critica e curatrice e quello di educatrice e mediatrice d'arte, spinta dal desiderio di avviare sinergie e confrontarsi con pubblici sempre diversi.

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