La rabbia che rimane. Lo sguardo profondo sugli altri di piombo di Paolo di Reda

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La rabbia che rimane è il quinto romanzo di Paolo Di Reda che, dopo i romanzi storici (Il labirinto dei libri segreti e La formula segreta delle SS) torna ad una narrazione più personale, striata di memorie recenti, vissute, piene di giovinezza, di incertezze e di dolori.

La scrittura è coinvolgente e sicura. Sa guidare, sa far vedere e conoscere, sa risvegliare sogni antichi e creare nuove aspettative.

La storia si svolge fra la fine degli anni ’50 e gli anni ’90 rileggendo politica, femminismo, violenza, terrorismo, libertà sessuale, droga, con gli occhi di chi l’ha incontrati in prima persona ed ora si sente finalmente libero di raccontarli.

Un punto di vista non facile, mediato dalla consapevolezza di essere, in qualche modo, venuti meno agli impegni presi con la vita, addolcito dall’infinita analisi di quello che doveva essere, poteva essere, è stato.

Nella prime pagine del libro prendi con tale minuziosità le distanze da quello di cui parli che sembra, a volte, di essere in un documentario sugli anni ’70. Hai fatto fatica ad approcciare la storia vissuta?

Credo si tratti di una questione di rispetto, piuttosto che una presa di distanza. Il romanzo si apre con la violenza subita da Giorgia, una ragazza di diciassette anni e  poi racconta la sua volontà di superare questo atto brutale. Logico che l’approccio al personaggio sia progressivo e pieno di riguardo: l’idea è stata quella di osservare le sue reazioni, il suo affrontare con coraggio un mondo che potrebbe sovrastarla. Gli anni ’60 e ’70 che fanno da sfondo a questa storia si riflettono nelle azioni e nelle vicende dei personaggi. Detto questo non credo, in tutta sincerità, di aver usato un tono da documentario: ho cercato di usare invece il punto di vista dei personaggi, e mai il mio.

Stupisce e un po’ turba il pensiero che un ventennio che ha tentato di rivoluzionare la vita, di aprire le possibilità e le speranze, sia stato guidato dalla rabbia. Sei davvero convinto che tutto, all’epoca, fermentasse nel senso di antagonismo e di rivalsa? Che coloro che scendevano in lotta avessero un demone che li portava a non essere capaci di mediare, a fare scelte totalizzanti, provocatorie, stupefacenti?

Mi sembra che il romanzo distingua nettamente la rabbia dall’antagonismo e dalla rivalsa. E in tutti i personaggi agisce non la rabbia compulsiva, aggressiva e distruttiva, quanto piuttosto “la rabbia che rimane”, ovvero quella che resta dentro senza trovare sfogo, la rabbia che nasce dalla sensazione di non aver fatto abbastanza per far prevalere le proprie idee. Invece l’antagonismo e la violenza hanno bloccato il cambiamento che molti, in quegli anni, desideravano con forza. Hanno prodotto paura e scoramento, ricacciando indietro la volontà di trasformare la realtà. La rabbia dei personaggi del mio romanzo sta tutta nell’impotenza di fronte a questa deriva. Reagiscono in modi diversi: chi cedendo alle tentazioni delle droghe pesanti, chi combattendo per la giustizia, chi abbracciando la causa delle donne. Anche il personaggio della terrorista, lei sì guidata dall’antagonismo e dalla rivalsa, ha il suo momento di riflessione e di trasformazione.

Raccontare la nostra vita, la vita che si è vissuta, non deve essere impresa facile. Come hai affrontato “lo specchio”?

Non guardando nello specchio. Il racconto non è autobiografico e anche alcuni fatti a cui ho assistito sono stati filtrati dagli occhi dei personaggi, diventando così esperienze completamente diverse. E’ stato un mio obiettivo fin dalla prima pagina: non raccontare il mio vissuto, ma trasmetterlo ai diversi protagonisti.

Parli di momenti precisi, citi manifestazioni, titoli di giornale, slogan, hai dovuto fare molte ricerche o hai più che altro affondato le mani nei tuoi ricordi?

Mi sono documentato leggendo saggi e articoli su quegli anni, soprattutto per la parte riferita agli anni ’60. Per il resto ho cercato di interiorizzare le esperienze e testimonianze dei parenti delle vittime. E non mi riferisco soltanto a quelle del terrorismo, di destra e di sinistra, ma anche alle vittime della tossicodipendenza.

Ci sono delle persone reali della tua vita che si celano dietro ai personaggi del libro?

No, anche se i racconti di persone a me vicine hanno di certo influenzato il racconto e determinato alcune caratteristiche dei personaggi.

Sono rimasta colpita dall’analisi “di genere”, sei molto duro con il maschile: quasi tutti gli uomini sono –nel caso migliore – egoisti, oppure violenti, stupratori, deboli, dipendenti, sessisti, infantili… sei davvero sicuro che sia così o è la lettura politically correct del rapporto uomo-donna ad averci condannati a questa visione? E, in caso, non sarebbe ora di superarla? Credere e far credere che i maschi siano incapaci non è uno dei modi per eludere le responsabilità e caricare comunque la donna di doveri e di fatiche?

Sì, penso anch’io sia ora di superarla. Ma questo vale per gli anni che stiamo vivendo, e che in ogni caso non rassicurano molto. Credo invece che, negli anni in cui è ambientato il romanzo, si sia assistito a un grande cambiamento nella vita di tutti noi generato dal movimento delle donne, dalla spinta a modificare profondamente i rapporti di genere, partendo dalla loro volontà di autodeterminazione. Gli uomini non hanno compiuto lo stesso cammino; anzi, pur perdendo i loro modelli di riferimento non hanno fatto nulla per trovarne di nuovi. Ciò non toglie che alcuni abbiano modificato il loro stile di vita, ma se lo sono tenuto per sé, senza avere l’esigenza né forse la possibilità di sperimentare  collettivamente un nuovo modo di essere maschi. Un’occasione persa anche questa, che si riflette anche nei personaggi de La rabbia che rimane.

La scrittura è avvolgente, visiva, delineata. Ricorda la narrazione cinematografica. Sarebbe molto interessante renderla un film. È stata una scelta meditata?

No, altrimenti non avrei scritto 370 pagine! Farne un film sarebbe un’impresa non facile e comunque non credo renderebbe il senso del racconto. Vedrei meglio una serie per la tv, di quelle che si producono oggi, più vicine ai ritmi e al passo dei romanzi. Anche perché offrono più facilmente la possibilità di raccontare punti di vista diversi.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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