Il Ballo. Sonia Bergamasco, una e molti rilegge Irene Nemirovsky

Il ballo, Sonia Bergamsco

I grandi artisti hanno una caratteristica comune: la capacità di essere dei Re Mida, rendere preziosi i progetti dei quali sono protagonisti.

È per questo motivo – più ancora che per un curriculum che inizia con Strehler e Castri e arriva a Carmelo Bene passando per Bertolucci – che Sonia Bergamasco deve essere considerata una grande artista.

Qualora ne servisse prova, a fornirla è Il Ballo, in scena al Teatro Franco Parenti di Milano.

Tratto dal racconto omonimo di Irène Nemirovsky, con una rielaborazione scenica curata dalla stessa Bergamasco, il testo indaga, in primo luogo, il rapporto fra una madre e una figlia.

Antoinette Kampf ha quattordici anni e desiderio di esistere, e una sola confidente, l’istitutrice Miss Betty. Il suo volo da spiccare è soffocato dal terrore che le incute la madre, Rosine.
Povera stenografa trovatasi ricca per un caso fortuito, la donna ora fa parte della migliore società parigina, e non è disposta a concedere alla figlia, a proprio discapito, la possibilità di goderne.

Quale migliore occasione per farsi accettare dall’alta società se non dare un ballo, di cui tutti in città dovranno parlare, capace di trasformare una coppia di arricchiti nell’invidia di Parigi. Non dovrà mancare nessuno, nei piani dei signori Kampf.
Nessuno, meno Antoinette. Troppo alto il rischio che la sua giovinezza offuschi una madre che non avrà una seconda occasione.

Un divieto che sarà l’ultimo strappo a una corda che supera il punto di rottura, dando ad Antoinette l’occasione della sua vendetta, per vanificare in un gesto tutti i sogni posticci della fredda Rosine
Una sorta di drammatica Cenerentola moderna, in cui ogni personaggio a suo modo è governato dal desiderio debordante di emergere e di essere riconoscibile, di sfolgorare.

Ma non c’è favola, in questo scorcio di cinica vita reale di inizio Novecento.
Il volo è permesso soltanto a danno di qualcun altro, lo sbocciare di una vita necessita dell’appassire di un’altra.

In rapporti che si giocano su paura ed equilibri fragili e spesso soltanto apparenti, l’unico principe azzurro a cui Antoinette possa davvero aspirare è la cannibalizzazione.
Esisterà esclusivamente a discapito dei suoi parenti, mentre le certezze si sfaldano insieme alla sua sudditanza.

La forza dirompente di questo racconto sta interamente nell’interpretazione.
La piéce lascia il palco e si dipana al centro dello spazio scenico, a pochi centimetri dallo spettatore, e l’atmosfera è cupa, rischiarata da coni di luce  in movimento – curati da Cesare Accetta – che segnano i momenti di uno spettacolo fatto di picchi emotivi e interpretativi che si susseguono uno dopo l’altro, senza veri tempi di respiro.
Attorno una miriade di specchi nei quali la Bergamasco, sola in scena, si moltiplica e rifrange nei cinque personaggi che interpreta insieme, sfruttando al massimo delle possibilità il suo talento recitativo.

Da ogni punto di osservazione lo spettatore rincorre con lo sguardo i gesti intensi e nervosi dei personaggi, mentre osservati da una distanza minima acquistano potenza gli sguardi aspri e fiammeggianti dell’attrice, che si rispecchiano in superfici che non rimandano un’immagine limpida, ma costellata di segni, e di macchie, così come lo sono le anime dei personaggi, Antoinette e Rosine ma anche il capofamiglia, Alfred, l’inglese Miss Betty e l’odiata cugina di Alfred, Isabelle nel loro specifico e articolato sentire.

A fare da contrasto l’abito bianco in cui la Bergamasco è fasciata, sopra il quale sono sufficienti i teli di plastica che poco alla volta scoprono gli specchi – mezzo scenico sapiente e insieme feticcio – a farsi di volta in volta vestito della festa brandito come un’arma, poi la maschera che nasconde le apparenze e le finzioni richieste dalla vita in società, o ancora la gabbia che imprigiona i desideri di una figlia che viene simbolicamente e scenicamente privata anche del respiro.

Un’ora che corre rapida e densa, nella quale la Bergamasco sfrutta tutte le sue potenzialità espressive e il suo talento,  e anche le minime espressioni sono funzionali a dare corpo a uno spaccato di vicende nel quale si mischiano colpe e assoluzioni, vittime e carnefici.

Sonia Bergamasco giganteggia, in questo sfaccettarsi e insieme saper riassumere tutto in sè stessa le sfaccettature dell’infelicità che, «come un corpo insepolto, geme in eterno».

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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