Gary Snyder e il giuramento di fedeltà alla terra, alla natura, alla poesia.

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Gary Snyder

Una sera d’estate di molti anni fa incontrai il poeta Gary Snyder.

Non posso credere che sia stato solo il mio estro a condurmi fino a lui, l’amore per la poesia o la curiosità: come alcuni preziosi eventi della vita, conserva una luce speciale, chiarissima, che illuminò tutti coloro che presero parte all’incontro.

Un incontro per non più di cinquanta persone solo per ecologisti ed artisti: la notizia era eccezionale, rimbalzata tra i miei amici, mi aveva raggiunta solo pochi giorni prima ed in modo inaspettato. Gli organizzatori, rifiutavano gli eccessi della tecnologia, non facevano uso del telefono ed avevano affidato l’invito alla posta cartacea, oppure a conoscenti e simpatizzanti, che si erano poi preoccupati di dare risonanza all’evento.

Con l’animo di chi riceve un dono straordinario dal destino, decisi di raggiungere in treno quella piccola valle tra Perugia e Gubbio, alla ricerca di un’illuminazione che arricchisse la mia vita.

Quel giorno soffiava un vento caldo di scirocco, che sembrava portarsi via i miei pensieri, mentre la meta del viaggio si faceva più vicina: un podere romito, che avrei raggiunto oltrepassando una strada di breccia bianca, in parte dissestata dalle piogge dell’inverno.

Avrei conosciuto Gary Snyder, poeta della Beat Generation, padre della Deep Ecology e nome illustre del Bioregionalismo, che avrebbe accolto pochi privilegiati amici della poesia naturalistica.
Il luogo dove mi stavo dirigendo mi era noto da tempo: l’avevo scoperto animato dall’energia lieta dei figli dei fiori, di cui manteneva i motivi fondanti pur facendo proprie nuove suggestioni: dal rifiuto estremo dell’ingerenza dell’uomo sulla natura, al rifuggire le alterazioni e le sofisticazioni dell’esperienza sensoriale: in poche parole la cultura del wilderness (ovvero del “selvatico”).

 Do it” sì, ma con criterio (se potessimo idealmente correggere il motto della generazione hippy).

E mentre percorrevo l’entroterra umbro, ripensavo a Thoreau, precursore di questo stile di vita, a cui forse avevo  contestato poca persistenza, pur condividendone i temi ispiratori: nel suo famoso romanzo Walden, vita nei boschi, infatti, era rimasto appena qualche anno nella dimora sperduta, mentre quasi ogni sera andava a bisbocciare in città e poi, stanco dell’esperienza troppo ardua, era ritornato nelle rassicuranti braccia di Waldo Emerson, suo mentore.
Ma in quel luogo fuori dal tempo dove ero giunta, l’effetto di quelle suggestioni si espandeva in me in un vortice di pensieri: inclinazioni verso il mondo naturale, una precisa coscienza del ruolo da svolgere nel mondo, entusiasmi letterari, poesie lette in pubblico, vagabondaggi, contestazione e sogni, ovvero tutto ciò che era stato d’ispirazione per Gary Snyder, poeta e visionario della natura, votato alla salvaguardia dell’ambiente.

Per lui quelle erano state influenze tali da determinare uno stile unico nella sua poetica, uno stile nel quale convergevano le diverse forme letterarie in un dialogo intimista ed aspro, non convenzionale, né in metrica, né in rima (come ha ribadito tante volte) mentre i temi prescelti lo avevano consacrato strenuo sostenitore “della salvaguardia delle tribù primitive, del rispetto della terra, della fuga dalla città e dall’industria, nel passato e nel possibile, nella contemplazione e nella comunità”.

Postmoderno, romantico, neotribalista, Gary rifiuta le etichette, ma si riconosce volentieri nel movimento bioregionalista, proprio di coloro che riabitano un territorio, inteso come appartenente a quel lato del selvatico che esalta la dimensione naturale individuale.

“Con la lama dell’ascia e l’ascia da lavoro al ceppo
comincio a dar forma al vecchio manico
con l’ascia e la frase imparata da Ezra Pound
mi risuona nell’orecchio
quando fai un manico d’ascia il modello non è lontano”.

E forse è stata proprio l’inclinazione di quel suo spirito schivo, ad impedirgli di dedicarsi ad una divulgazione più massiccia della sua opera, mentre insegnava all’università e poi si dedicava a coltivare il suo orto, nel luogo che aveva eletto come dimora. Un afflato più intimo, che forse rallentò la diffusione della sua produzione letteraria: basti pensare che, fino ad oggi, solo otto volumi delle sue ventisei raccolte, sono stati tradotti in italiano.

Lungo il cammino mi sorprendevo a pensare che presto avrei conosciuto l’uomo che aveva infiammato la fantasia di Jack Kerouac e che era pure sfuggito dalle pagine di un libro della biblioteca di mio padre, tanti anni prima, prendendo a vagabondare nella mia mente fino a farmi scoprire il centro da cui provenivo (e questo quando ancora il buddismo che ispirava quei personaggi, non era parte delle mie letture).

L’autore de I vagabondi del dharma, aveva rintracciato infatti nel suo amico Gary Snyder, l’ispirazione ideale per ricostruire i pellegrinaggi di una generazione alla ricerca dell’ultima realtà, in un nuovo mondo, non già laico, ma senz’altro spregiudicato.
E questo accadeva molto prima che Gary mettesse per iscritto le sue poesie.

Esperienza, sogno e realtà si intrecciano nell’immaginario, ma quel che rimane è il senso storicistico della presa di coscienza.

E come Allen Ginsberg aveva rappresentato il trait d’union tra la Beat Generation ed il movimento hippy, così Gary Snyder aveva avuto il merito di estendere la sua visione al di là della percezione ordinaria della natura…

Ginsberg: non era stato proprio Snyder, tra i primi, ad averlo ascoltato, emozionato e tremante, coinvolto fino al parossismo, declamare Howl? Quella poesia, opportunamente intitolata Urlo, aveva rappresentato il manifesto dell’antifascismo americano, osannato ed aborrito, perché quella raccolta di versi comportò all’editore un processo per oscenità (peraltro vinto in virtù del primo emendamento).

“In quel momento pensai che fosse adatta al periodo storico”, affermò Gary esprimendo la sua opinione su quella poesia in tono pacato, assai distante dalla vivace forma espressiva dei suoi compagni di contestazione, dai quali si era distaccato anche fisicamente, andando  a soggiornare in un monastero giapponese, nel 1956.
E non si hanno dubbi che la sua espressione artistica, pur avendo avuto inizio in quel crogiuolo di rivoluzione del pensiero, si sia riproposta altri obiettivi.
Se può essere ricordata come la poetica dello zaino in spalla, di cui parla Japhy Ryder (pseudonimo dato da Kerouak a Gary, nel romanzo I vagabondi del Dharma), è però sfociata in una nuova forza trainante, quella appunto della Deep Ecology. Un’esigenza che è maturata in lui accanto alla rinuncia buddista: la natura non è un luogo da cui ricavare in modo aggressivo il proprio fabbisogno, ma il regno dell’eterno fluire, dove dimorare in uno scambio rinnovatore.

“Il silenzio della natura dentro
 il potere dentro
 il potere fuori
Il percorso è qualunque cosa passa,
non fine a se stesso”

Intanto alla casa nella radura nella quale mi stavo dirigendo, stavano già facendo girare il bastone di nocciolo, usanza della comunità che fa sì che tutti i convenuti, una volta ricevuto il bastone, si presentino e raccontino il motivo che li ha condotti là.

Mentre mi affrettavo a raggiungerli, mi chiedevo cosa avrebbe detto Gary: “Sono arrivato qui da una terra lontana, per narrarvi una storia di ideali e di poesia”?

Avrà forse nostalgia del suo mondo, al confine del Nevada, dove ha costruito la sua casa? E vorrà delineare anche nei nostri orizzonti geografici più limitati, la particolarità delle regioni fluviali, quei confini naturali che darebbero senso e sostentamento alla vita di intere comunità, nella concezione bioregionalista?

E cosa penserà della mia scelta di vivere sola sulle montagne?

So cosa gli dirò io: “Abito una  terra che nel medioevo la chiesa denominò “triangolo delle streghe”, tra il Monte San Vicino, il Monte Conero ed i Sibillini; c’è il fiume Esino che delimita la valle e poco al di sopra ho ricostruito la mia casa di pietra e legno”.

E lui forse vorrà ascoltarmi per sapere che specie coabitano il mio luogo ed io gli narrerò di quando le api, in estate, volteggiano attorno a me, perché le lasci abbeverare alla fontana e delle notti di tormenta, in inverno, in cui gli animali del bosco corrono alle loro tane…

“Giuro fedeltà alla terra
all’isola della tartaruga
e a tutti gli esseri ivi dimoranti…”

Questi versi scriveva il poeta nella raccolta di poesie che gli valse il riconoscimento del premio Pulitzer, nel 1975, intitolata proprio L’isola della Tartaruga, ovvero il nome che i nativi americani avevano dato alla loro terra.

E questo vivere dovrebbe probabilmente rappresentare uno stato spontaneo cui tende l’individuo, anche se non è così semplice optare per uno stile di vita così diverso: la società odierna impone delle scelte drastiche, con le quali è necessario venire a patti; anche se, come asserisci tu, Gary, ogni concessione alla modernizzazione ne comporta altre, in una catena infinita di dipendenze.

Allora forse suggeriresti uno dei tuoi koan preferiti, che potrebbe farmi capire tutto in un lampo, sospendendo il mio giudizio: so che conosci il valore dell’indecifrabilità.

“Granito caldo, ci accampiamo, sonnecchiamo, abbandoniamo le nostre menti al vento”.

Quando finalmente giunsi alla casa, la serata era già avviata; mi soffermai un poco accanto al cancelletto di legno d’ingresso, attenta a non far entrare un asinello curioso. Poi condividemmo il pane dell’abbondanza, preparato da una comunità operosa, cotto nel forno solare, con la spiga pagana e non la croce, incisa sulla pasta morbida.

E scherzammo e sorridemmo, seduti a terra, a gambe incrociate, accomodati nell’ampio terrazzo sotto le stelle, salotto di questa nuova congrega di ispirati, costruito dopo il terremoto dell’Umbria su progetto di un architetto californiano.

Al centro del terrapieno dove si erge, maestoso, un vecchio gelso sotto al quale era stato posto un tavolo di legno massiccio, quella sera Gary Snyder si era seduto di fronte a noi, impassibile e tranquillo.
Poi aveva parlato con voce pacata ai convenuti, sostenendo che nelle comunità naturali si ritornava al senso di cooperazione, perché non si era più costretti al ruolo di leader, come nei meccanismi così detti civilizzati, dove la forma aggregativa è il team.

Quello fu il mio primo incontro con Gary Snyder.

Ricordo che il poeta aveva aperto il suo libro, Riabitare nel grande flusso ed aveva letto alcune poesie. Il tono era sussurrato, ma la sua voce risuonava sicura nel cerchio di amicizia della neo comunità di riabitanti. Accanto a lui c’era chi suonava il flauto o pizzicava l’arpa; sopra di lui il maestoso albero sembrava custodire le nuove ispirazioni.

Quella sera la mia vita certamente era cambiata. Anche se non avrei mai scelto di vivere senza elettricità, come alcuni amici avevano già fatto e non avrei mai rotto completamente gli ultimi indugi, ricusando del tutto la modernità.

Ero tornata a casa con un libro ed un vasetto di marmellata color rubino, preparata con i frutti di quell’albero. Li stringevo a me con un senso di consapevolezza felice. Troppo emozionata per poter parlare a Gary in inglese, avevo semplicemente lasciato che quell’esperienza divenisse parte di me.

Tempo dopo lo rincontrai a Firenze, in un contesto completamente diverso, una libreria nel centro e ricordo che il chiacchiericcio degli astanti non lo turbava, era quasi indifferente a ciò che accadeva attorno, l’avresti detto riassorbito nel centro del cuore…

“Questa terra viva
che scorre
è tutto quel che c’è
Noi siamo lei
lei canta attraverso noi”

E vivo ora, come allora, questa intensa sensazione. Non sapevo però che  Snyder l’avrebbe suggellata con la composizione della recente opera, This present moment (Febbraio 2015) e se un giorno avrete occasione di leggerla, ci raggiungerete ancora qui, dove siamo ora…

“This present moment
That lives on
To become
Long ago.”

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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