Scusate se non siamo morti in mare: il dramma dell’emigrazione

La disperazione. La necessità di lasciare tutto ciò che si ha di più caro, alla ricerca di un futuro di dignità. È qualcosa che dovrebbe esserci molto vicino, il tema affrontato da Scusate se non siamo morti in mare – titolo preso non a caso da un cartello di Lampedusa – il nuovo testo firmato da Emanuele Aldrovandi, al Teatro della Cooperativa di Milano.
Se per caso non lo fosse abbastanza, Aldrovandi utilizza un espediente interessante: ambienta le vicende in un futuro non lontano, nel quale il continente da cui fuggire è diventata la “vecchia” Europa. I giovani che partono sono europei, molto probabilmente italiani. Impossibile per lo spettatore non specchiarsi nei loro volti.
Due ragazzi e una ragazza – quest’ultima di origini nordafricane – il parallelo con le migrazioni del nostro oggi è dichiarato e sfruttato con accuratezza, nella storia delle scelta dei suoi genitori – partono con pochi averi, con l’unico mezzo che si possono permettere: un container, di proprietà di un grasso scafista che è la personificazione della crudeltà, che ripete frasi accumulate dalla rete voracemente come il cibo.
Per rimanere vivo e non impazzire, dice, ma è proprio questo parossismo a disumanizzarlo, a farne una macchina. O forse ci serve soltanto, pensare che ci sia in lui qualcosa di disumano, E invece è potentemente reale.

Nelle sue grinfie tre persone, private persino del nome, ma che conservano caratteri e storie, seppure perfettamente in bilico – e di nuovo corre sotto traccia un simbolismo evocativo – tra ciò che di dei loro ricordi è reale e ciò che non lo è.
I migranti, stretti tra le pareti sigillate del container, sono una giovane alla seconda migrazione della sua vita, La Bella: Luz Beatriz Lattanzi, un bancarottiere in fuga dalla giustizia verso il suo impero in Sudamerica: il Robusto Daniele Pitari, uno scrittore che emigra sperando di poter raccontare le storie dei compagni, attirandosene l’odio: l’Alto Marcello Mocchi. Tutti nelle grinfie del proprietario dell’imbarcazione, il Morbido Mathieu Pastore.

In scena, su un palco quasi nudo, con una scenografia così minimale da sconfinare nell’assenza, la realtà brutale dei momenti estremi. Quelli in cui non c’è spazio per la reciproca fiducia, per l’impreparazione, in cui il non approdare mai è molto di più che una possibilità, eppure, nella brutale sincerità della descrizione, fra la partenza al porto e l’inizio del viaggio, si può ancora lasciarsi andare alla retorica del viaggio di speranza, e immaginare che si, sarà difficile, ma alla fine un’idea di futuro arriverà. Tutta la prima parte del testo rispecchia pienamente l’iconografia tipica del teatro civile, della denuncia sociale.
Il messaggio suona chiaro e preciso: Stiamo erigendo muri e giudicando vite, che potrebbero essere le nostre. E se (o piuttosto, sembra suggerire, quando) in quelle carrette ci fossimo noi?
Intanto, fra le persone esplodono le contraddizioni, ma si può ancora guardare lontano.

Da un certo punto, tuttavia, lo spettacolo si spezza nettamente. Il container fa naufragio. I migranti sono salvi, ma soli, in mezzo al nulla.
L’atmosfera si incupisce e le speranze vengono meno, lentamente ma inesorabilmente. La denucia si trasforma in uno spasmodico thriller, in cui la posta in palio è qualche ora di sopravvivenza, a prezzo l’uno dell’altro.
L’illusione di potere raccontare una migrazione come una commedia – nel senso etimologico, dal dramma alla felicità – viene strappata, con tutto il suo carico di inquietudine e di verità.
E il ritorno del Morbido sancisce il dato più spaventoso ma anche quello più coraggioso. Non c’è speranza di salvezza.
Tutto si fonda su delle bugie, propinate a ciascuno e da ciascuno a se stesso, il male, il dramma l’incubo sono reali, come la crudeltà dello scafista. Sono concreti e vicini, e afferrano lo spettatore per la collottola: non si può girare la testa, o rifuguarsi nella statistica. La morte, nonostante la contraddizione col titolo, è il punto di arrivo inevitabile di quei viaggi come di questo, l’approdo è una fortunata eccezione.

La buona prova degli attori rende la forza di un lavoro – per la regia di Pablo Solari – spietato ma evidentemente necessario proprio in quanto tale. Senza sconti. Perchè certe storie non si possono raccontare. Chi le vive «non vuole raccontarle, solo dimenticarle», ma dimenticare a chi osserva non è permesso.
Tutt’al più, l’unico spazio che gli è concesso è una visione onirica prima del buio e del sipario chiuso: l’arrivo di una balena, la quale a sua volta può essere riscatto o il compiersi della tragedia, mentre le voci che tornano riempiono la mente di chi resta, sospese fra la resurrezione e la completa follia.

 

+ ARTICOLI

Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.