Lourdes. Andrea Cosentino, l’acqua santa e il miracolo della collaborazione.

Andrea Cosentino, Lourdes. Foto di Emanuela Giusto

Nel ’98 Rosa Matteucci esordisce per Adelphi con Lourdes, suo primo romanzo.

Qualche folto anno dopo Luca Ricci, fondatore e direttore artistico di Kilowatt Festival, riadatta il testo presentandolo ai Teatri del sacro.

Lourdes viene inserito poi nella programmazione del Teatro Orologio, a Roma, seguito dall’osservatorio critico di Dominio Pubblico, un bel progetto che coinvolge anche l’Argotstudio.

C’è Andrea Cosentino, c’è una panca da spogliatoio e nel buio affoga Danila Massimi che si interfaccia con la scena utilizzando dal vivo i propri strumenti del mestiere. C’è anche una bottiglietta con l’acqua santa a forma di madonnina da cui l’attore attinge per dissetarsi quando la musica lo sovrasta.

Un’ora esatta.

La storia è quella di una dama di carità e delle motivazioni che l’hanno spinta ad affrontare un pellegrinaggio collettivo verso Lourdes. I toni sono esilaranti e la narrazione scorre piacevolmente dalla bocca di un Cosentino esatto, presente, lucido e camaleontico.

Lui è fotografato ad apertura nel momento della discesa dentro la vasca sacra, quella dell’apparizione mariana in cui si domanda qualcosa a un ente invisibile. A chiusura torneremo a quel momento, in modo circolare, mentre tutto quello che avviene nello spazio di mezzo è un corpo vestito da dama di carità, pressoché immobile, che soltanto attraverso un utilizzo minuzioso della narrazione orale, rende il carnevale di una serie di fatti occorsi durante il pellegrinaggio tra anziane zoppe da sorvegliare al gabinetto, croste purulente disciolte nelle vasche delle immersioni sacre, beghe tra comari pie, usi e costumi propri della devozione peregrina.

Cosentino questa volta è diretto da un’altra mano e l’esigenza del racconto non è la sua. Privato perciò dell’autorialità drammaturgica ci troviamo di fronte a qualcosa di molto nuovo.

La sua partecipazione alla scrittura scenica è molto comoda da odorare: la firma si riconosce, se ne riconosce anche il ritmo serrato ma dominato e la riflessione che ne scaturisce è sorprendente quanto probabile.

Che un autore protagonista del teatro d’avanguardia abbia fatto spazio all’umiltà di essere diretto, che oltre ai propri progetti lasci una fessura per le collaborazioni a cui prestare il fianco e che si ponga ancora, in un’età non proprio vergine, in una posizione di cooperazione il cui risultato è unitario e brillante e non liquefatto e artificioso come spesso lo spettatore è abituato a subire, dimostra quanto siano necessarie, per perseverare in questo lavoro, una intelligenza emotiva e una misura del proprio ego.

Ci auguriamo dunque che anche le grandi produzioni ricoperte d’oro e fregiate del titolo di avanguardia, un giorno, pensino di poter cooperare con chi li possa accompagnare verso l’unità e l’onestà del saper raccontare, per un’ora, un fatto che si veda con gli occhi attraverso una banalissima prosa.

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Maria Rita Di Bari è un acquario del 1986. Si laurea in lingue con una tesi sulla giustizia letteraria dedicata a Sophia de Mello Breyner Andresen e scrive di critica teatrale e cinematografica per testate quali Repubblica.it, “O”, “Point Blank” e “InsideArt”. Ha pubblicato con Flanerì un racconto dal titolo “La fuga di Polonio”.

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