Il Vicario. All’Elfo riemerge il j’accuse al papa sulla Shoah

Messo in scena per la prima volta nel 1963, fu censurato dopo una sola serata, e costò l’arresto al suo interprete, Gian Maria Volontè. Riproposto dopo più di trent’anni, ora Il Vicario approda al Teatro Elfo Puccini di Milano.

Un soldato delle SS, K urt Gerstein, che conosce da vicino ciò che accade nei campi di sterminio, e che anzi sembra essersi arruolato apposta per averne contezza, sa che, con la guerra che procede a gradi falcate, un uomo solo può fermare l’eccidio che si sta consumando a Treblinka e in altre decine di luoghi. L’unico uomo che nessuno, in Occidente, avrebbe l’ardire di contrastare: Il Papa Pio XII, Eugenio Pacelli.

Il soldato si reca dal Nunzio Apostolico, il solo che possa intercedere in modo credibile con la Santa Sede.

Quest’ultimo, tuttavia, impaurito, nega di avere voce in capitolo: solo il Papa può prendere una posizione netta.
Nelle stanze del Nunzio in quel momento, però, c’è un giovane gesuita, Riccardo Fontana. Figlio di uno dei consiglieri più vicini a Papa Pacelli, il Conte, sarà lui a tentare di fare ragionare il Papa secondo la propria coscienza.
Scoprirà così come nei luoghi che dovressero essere governati dai sacri valori della carità e dell’amore del prossimo, talora è la politica, a farla da padrone.
Papa Pacelli, rigido e fervente anticomunista, sceglierà la via della politica, della presa di posizione moderata e morbida, in nome della salvaguardia di un patto firmato con la Germania nazista, che vedeva il Reich come l’ultimo baluardo contro l’avanzata rossa.
Disgustato e rabbioso, Fontana farà l’unica scelta possibile: mettere in gioco la propria stessa vita.

Un testo durissimo e spietato, che mette il dito in una delle piaghe più dolorose e pavidamente nascoste della storia del secolo breve. Alla Compagnia del vicario, composta da  Matteo Caccia, Marco Foschi, Nicola Bortolotti, Enrico Roccaforte, Cinzia Spanò e Giuseppe Lanino, oltre che del regista Rosario Tedesco, il merito di aver ridato voce ad un testo che inchioda lo spettatore all’eroismo quotidiano e alla meschinità degli uomini, alla domanda mai espressa che costantemente aleggia, su chi si nasconde e chi agisce, e dentro gli spettatori: «E io, da che parte starei, davvero?»
Da quella del Vicario di Cristo – del quale è in corso una controversa causa di beatificazione – che sceglie la politica, la prudenza, le parole verbose che rimbombano vuote, e hanno un effetto inferiore al silenzio?
O quella di un piccolo prete, che non ha paura di accusare, con tutta la sua forza: «Dio non mandi la Chiesa alla rovina solo perché un Papa si mostra poco degno del suo nome»

L’assunto dello spettacolo è forte e potenzialmente dirompente, oltre che dirimente per la storia del Novecento.
Sul palco, c’è spazio anche per dare una voce all’angelo della morte, il terribile dottor Mengele, che interagisce con Fontana; tutti gli elementi, insomma, perché ne venga un ottimo lavoro.

Compito almeno parzialmente fallito, in realtà. Stante la validità del contenuto, la scelta della lettura scenica, se da un lato evidentemente vuole rendere il carattere testimoniale del testo di Rolf Hochhuth danneggia la messa in scena, che perde in forza teatrale: al di là dei volumi delle voci, delle grida e della rabbia, delle reazioni quasi glaciali del Pontefice, e di quelle melliflue del Nunzio Apostolico, infatti, la qualità e il pathos si alzano nettamente nei pochi momenti nei quali gli attori lasciano i leggii e recuperano una dimensione corporea. Anche i costumi sono quasi assenti, fatto salvo l’abito talare di Fontana, che senza dubbio spicca, quanto tuttavia spicca l’assenza di connotazione degli altri personaggi. Si sarebbe potuto osare un po’ di più.
La stessa dicotomia si respira nei due momenti scenici che esulano dal testo propriamente inteso. Esso è infatti introdotto da una autorevole e dettagliata introduzione di contestualizzazione storica e teatrale, che se per alcuni aspetti può rivelarsi utile, finisce inevitabilmente con il risultare prolissa e piuttosto dispersiva, correndo il concreto rischio di far crollare l’attenzione e l’empatia prima ancora che lo spettacolo inizi. Di segno ed effetto totalmente opposto invece, l’emozionante scelta di far leggere la Lettera di una ragazza ebrea di Ostia, a voci della società civile: artisti, attivisti, studenti. Ogni sera una voce diversa, ogni sera un vicario si assume così il compito di tenere viva la memoria, con le parole di una giovane che se da un lato riconosce, dolente «Di ritrovarmi, amore, lascia ogni speranza: Iddio è freddo, come il fasto in San Giovanni.» invita a far tesoro del ricordo: il suo, ma anche quello dell’immaginario Fontana che occhieggia a Padre Kolbe, per continuare a vivere: «Ma non cercarmi troppo: prenditi una ragazza che ti dia più di me. Dimentica. Siate felici assieme, ma non aspettate troppo per l’amore»

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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