Le ragioni di Candide ruotano attorno all’Europa

Le ragioni del Candide di Voltaire (1759) e quelle della sua riscrittura ad opera di Ravenhill (2013), si può pensare che siano le medesime. Ognuno figlio della propria epoca e in relazione ai propri terremoti, entrambi si accaniscono contro il contemporaneo procedere del tempo e del linguaggio, l’uno verso le felici teorie metafisiche leibniziane secondo cui il divino agire interviene sempre per carezzare l’umanità ricordando ad essa che quello in cui è stanziata sarebbe il migliore dei mondi possibili, l’altro invece contro le coscienze beote e anestetizzate della società liquida in cui viviamo, paralizzate in una smorfia felice che ricorda il Candide.

Fabrizio Arcuri ha deciso di mettere in scena l’opera ispirata a Voltaire tradotta da Pieraldo Girotto, sul palco dell’Argentina fino al 13 Marzo, poi al Mercadante di Napoli fino al 20.

Sono cinque quadri che procedono in modo ucronico sulla linea del tempo, nella riscrittura di Revenhill e dunque nella regia di Arcuri.

La vera bellezza della messa in scena e della riuscita dello spettacolo è inscritta in due parametri fondamentali: la scenografia a cura di Andrea Simonetti e la macchina attoriale assolutamente scattante all’esigenza del ritmo.

Ad apertura siamo nel solito espediente della finzione nella finzione, pieno ‘700, dove a Candide viene illustrata la pantomima della sua vita; lo spettatore è portato a spasso tra presente, passato e futuro forse in modo talvolta un poco didascalico, come se la regia non si fidasse appieno della capacità intellettiva dello spettatore. Sino al secondo quadro, un moderno hotel in cui è inserita una famiglia durante il diciottesimo compleanno della figlia, tutto è sorprendentemente organizzato, ma la retorica con cui la neo diciottenne tira fuori una pistola per far fuori l’intera compagnia è un terribile cazzotto nel petto difficile da perdonare.

Il terzo quadro prevede l’inserimento di un compendio audiovisivo che fa molto gioco all’horror tour a cui si assiste.

Nel quarto quadro si torna indietro, nel paese di El Dorado, da cui Candide trova il modo per fuggire in sella a una pecora ancorata in aria.

In ultima battuta un futuro in cui Candide incontra Sarah, la madre della diciottenne omicida che nel terzo quadro aveva prestato il fianco al racconto della propria storia. Qui Candide incontra nuovamente Cunegonde, l’amata finalmente ritrovata, che sbuca da una botola sotto palco invecchiata di secoli, avvinghiata in una bandiera dell’Europa.

È forse qui che lo spettatore è obbligato a cogliere l’esigenza critica della messa in scena, tutto ruota attorno alla Signora Europa, una vecchia in cui l’ingenuo Candide aveva riposto la propria speranza amorosa, che ora appare decrepita e pusillanime e soprattutto ripugnante cui Candide rifiuta di accoppiarsi sebbene non abbia desiderato altro per la propria esistenza fino a quel momento.

Ultimo ma determinante appunto per l’apparato musicale: H.E.R. tiene insieme i pezzi della narrazione. Violino e voce alla mano, questa potentissima figura si occupa del complicato rapporto con l’empatia traghettando lo spettatore dentro le invisibili corde dell’emozione.

 

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Maria Rita Di Bari è un acquario del 1986. Si laurea in lingue con una tesi sulla giustizia letteraria dedicata a Sophia de Mello Breyner Andresen e scrive di critica teatrale e cinematografica per testate quali Repubblica.it, “O”, “Point Blank” e “InsideArt”. Ha pubblicato con Flanerì un racconto dal titolo “La fuga di Polonio”.

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