Ophelia e Lady Macbeth: la dicotomia di Quello che le donne non dicono

La donna che «quando è triste canta», e quella che chiede agli spiriti di essere riempita di fiele. Ophelia e Lady Macbeth. Una fragile follia e una cieca crudeltà. Due opposti che possono stare nel profondo della stessa persona.

Questo l’assunto di Quello che le donne non dicono andato in scena al Teatro Libero di Milano.

Fabio Banfo prende a prestito il titolo di una celebre canzone italiana che tutto fa pensare meno che qualcosa di cupo, per raccontare una vicenda cupa, inquietante, drammatica ai limiti della possibilità di comprendere
È una scelta non casuale, quella del titolo, perchè canzoni italiane nazionalpopolari e apparentemente leggere punteggiano, studiatamente, il racconto, e su un pianoforte scuro suona Sanremo.
La storia di una donna la cui scissione interiore si fa concreta attraverso la costruzione di un monologo in forma di dialogo, in cui ciascuna delle due metà, lungo le vicende, è l’ombra dell’altra.
L’unica e necessaria interlocutrice è una figura, scura a sua volta. La migliore amica di Ophelia-Lady Macbeth, l’unica in grado di capirla, e guidarla. O forse colei che la giudica e la spinge nel baratro?

Con lei la donna, tornata nella casa in cui è cresciuta, ripercorre tutta la sua esistenza. Tutte le tappe di passaggio della vita di una donna: il rapporto con un padre single, gli altri uomini, la prima volta, il matrimonio, il figlio…

Momenti punteggiati di un’apparentemente insolita abbondanza di tragedie, che lasciano la bambina e poi la donna sempre più sola.
Fragile e inquietante, rilegge dolorosamente il suo passato, e dialoga con se stessa.
Nello svolgersi del racconto, la storia comincia lentamente e progressivamente a creparsi. Sullo sfondo di una nonna morta ai piedi di una scalinata, poco per volta emerge la lotta fra l’anima nera di Lady Macbeth, che comincia a fare vedere la sua crudeltà, lottando con l’inconsapevolezza di Ophelia, alla quale la donna si abbranca spasmodicamente, modellando una nuova realtà accettabile sul dramma, sfumando i confini fra convento e manicomio, fra tragica fatalità e omicidio. Fra vittima e colpevole. Un doppio che percorre tutta la trama del testo, inevitabilmente destinato allo scontro dei due estremi e soprattutto con la realtà.

Un conflitto incapace di portare sintesi, ma destinato a rincorrersi, tra i bianchi e neri degli abiti, e dietro aperture che di volta in volta nascondono e celano le due anime, in una scenografia di pochi elementi ma molto intelligente, di forte impatto simbolico.

Ma se «si viene al mondo per andare incontro a un destino», un punto di arrivo deve esistere, e fra i gorghi della follia non può essere nella consapevolezza, data dalla voce della figura tentacolare dell’amica, che la donna identifica insieme nella propria salvatrice e nella propria colpa. Una voce che non esiste. E dunque la sola pace può restare il buio, e il silenzio.
Monica Faggiani e Debora Mancini danno un interpretazione molto intensa ed emozionale, di un testo denso di inquietudine, dove il dramma non risparmia nessun aspetto.
Le due figure shakespeariane sono citate e attualizzate in una chiave di degradamento che ne sfrutta il significato assolutizzato, più che la vicenda concreta, e che dimostra come il drammaturgo inglese abbia saputo toccare e rappresentare nuclei che sono al di fuori di ogni tempo, e possono per questo servire al loro senso anche oggi, con la medesima forza.
Si tratta di uno spettacolo che si infiltra nelle pieghe della mente umana, in tutte le sue contraddittorietà, che si riflettono in un testo di importante lirismo e in una messa in scena costruita su idee indubbiamente affascinanti e riuscite. Sono, tuttavia estremamente celebrali, di lettura tutt’altro che agevole nel loro dipanarsi tra follia e lucidità, coscienza e incoscienza, fragilità e mostruosità che si frangono e si compenetrano. Il doppio perde i propri confini, e nessuna figura porta caratteri specifici, niente è facilmente identificabile. La complessità della mente umana che si specchia in quella del teatro, lasciando lo spettatore con il dubbio di aver capito soltanto una parte di ciò che avrebbe dovuto, della scena e ancor più dei suoi simili.

 

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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