Lady Mortaccia. Pregi e difetti del cabaret

Si dice che il teatro sia destinato a restare nel tempo perchè racconta l’uomo, in tutti i suoi aspetti, anche i più drammatici. E allora il momento più tragico di tutti, la morte, può diventare estremamente interessante. E come raccontare il più drammatico degli istanti di un esistenza se non stravolgendolo in risata?
Questo, in buona sostanza, fa Lady Mortaccia, in scena al Teatro Giuditta Pasta di Saronno.

Uno spettacolo che inizia prima del sipario, quando un inquietante figuro nero vestito e sorridente si aggira in platea distribuendo cornini agli astanti. Il loro significato apotropaico è facilmente intuibile, e viene confermato quando in una elaborata scena abientata in un cimitero, su un palcoscenico affollato di orpelli inquietanti e sotto un temporale, fa il suo ingresso lei, la Morte, con un’ estetica che occhieggia platealmente a Tim Burton e in parte al Rocky Horror Picture Show. La Nera Signora è una Veronica Pivetti che indubbiamente calamita gli sguardi e l’attenzione, mentre accanto a lei si muovono sua figlia, la sardonica falce Sentenza, interpretata da Elisa Benedetta Marinoni, e il losco vecchio che si è già mostrato, che si rivela essere il mellifluo maggiordomo Funesto, Oreste Valente.

Dal loro privilegiato punto di vista, l’aldilà, i tre raccontano la loro quotidianità, in un crescendo quasi parossistico di ironia e delirio senza posa e con un filo talora piuttosto labile. Lo fanno cantando, con le parole della (anche) regista, Giovanna Gra: testi divertenti e divertiti, ironici, spesso sboccati e talvolta lascivi, che si appoggiano su musiche che non fanno nessuna fatica a rimanere impresse nella memoria. Senz’altro non un testo per bigotti. Questa mortifera quotidianità è scossa dall’arrivo di un cadavere che Lady Mortaccia non si spiega, un vero e proprio «esubero», prova regina che aldiquà e aldilà infondo non sono poi così diversi. Anzi si specchiano l’uno nell’altro. Così come, dovrà suo malgrado scoprire la Signora dalla Falce, è lei stessa a specchiarsi negli occhi di questo fantoccio in decomposizione e senza scopo, divenuta oramai inservibile davanti alla crudeltà degli uomini, che ha sovrastato persino la Morte.

A sostenere il tutto tre attori, con la Pivetti indiscussa mattatrice, che trovano l’occasione ideale per dare prova della loro versatilità, fra colori, lazzi e balli, che strappano sorrisi e scongiuri.
Se tuttavia si tratta di una pièce molto carica di elementi, congeniata in modo scenicamente furbo, poco rimane, al di là di un cabaret infarcito di citazioni anche di altissima levatura, da una simpatica rielaborazione piuttosto fedele della “Collina” di Spoon River di  Masters, al rimando alla morte di Cesare Pavese, quella  che «verrà all’improvviso e avrà i miei occhi»
In un lavoro evidentemente nato con lo scopo di intrettenere si disseminano qua e là spunti di riflessione seri e profondi, benchè sempre porti con leggerezza, sulla meschinità dell’uomo e la sua cattiveria che ha ormai raggiunto livelli al di là di ogni possibile immaginazione, persino quella, truce per natura, della Morte. E quando la denuncia si fa più diretta e corposa, nel finale, il livello si alza, riannodando i fili apparentemente casuali e puramente ridanciani della prima parte.
E tuttavia, chi ami andare a teatro per emozionarsi non può che uscire inevitabilmente deluso dalla sala, perchè l’eccesso e l’abilità dei protagonisti si fermano in sè stessi, nella levità di quella che, più che comicità, è puro varietà. Forma espressiva non priva di una sua nobiltà, beninteso, ma che porta a chiedersi se, pur essendo intelligente affrontare il dramma con ironia, fossero i balli e le varie note di colore il modo più efficace.
Non c’è dubbio che tanto la Pivetti quanto i suoi colleghi abbiano mestiere e talento, oltre che il fisico, sufficienti e adatti a uscire con onore dalla sala, se la sua platea cerca l’intrattenimento di un sabato sera primaverile, ma quello che ne rimane è uno spettacolo in fin dei conti piuttosto loffio, mentre si è assaliti dal dubbio  strisciante che si, il cabaret è divertente, ma se ne sarebbe anche potuto fare tranquillamente a meno.

Indubbiamente più debole di quanto le potenzialità del gruppo di lavoro nel suo insieme avrebbe potuto produrre, è una commedia musicale che accoglie e rielabora grandi modelli, che con l’ironia hanno sapientemente saputo giocare, senza averne la potenza espressiva. A conti fatti, dopo la risata e la serata gradevole, resta l’amarezza di un’occasione persa.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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