L’identità narrata con parole di vetro. Intervista a Silvia Levenson

Argentina (Buenos Aires, 1957), Silvia Levenson approda, con la propria mostra “Identidad Desaparecida” (a cura della stessa Levenson e di Elena Povellato, allestimento di Daniela Ferretti) al Museo del Vetro di Murano, un’istituzione per quanto riguarda la lavorazione artistica di questo materiale, con un progetto che emoziona profondamente e stupisce.
I visitatori che accedono allo spazio a lei dedicato nelle sale delle Conterie, sono inizialmente incuriositi, da una fila di abitini da neonato, in vetro di vari colori, che accolgono e accompagnano lungo tutto il percorso. Poi la curiosità, lascia il posto alla potenza del messaggio che l’artista vuole condividere: con generosità e garbo, incisiva senza essere mai violenta, ci dona una parte di storia del suo Paese e anche propria.
Per meglio comprendere il suo racconto, la incontriamo proprio tra le sue opere che apparentemente sono semplici oggetti del quotidiano, scarpette, altalene, seggioline, piccole tavole imbandite e foto di famiglia, nei quali però si nascondono minacce e pericoli che li rendono un sunto di verità.

Finalmente possiamo apprezzare le tue opere anche nel tempio del vetro, il tuo materiale d’elezione

Sono molto contenta di questa mostra e credo che la curatrice e tutto il gruppo di lavoro abbiano dimostrato molto coraggio concedendo questo spazio alle mie opere. Per me il vetro è uno strumento, un medium, per esprimere, per parlare delle mie idee, delle mie sensazioni, mentre di norma viene usato a livello decorativo; se consideriamo che sono argentina, sono una donna, non soffio il vetro e lo lavoro da sola, senza appoggiarmi ad altri artigiani, il risultato è abbastanza inusuale.

Proprio qui a Murano è insolito che sia una donna a lavorare il vetro…

Sì, la tradizione muranese del vetro soffiato non prevede la presenza di donne nelle fornaci, anche perché anticamente i soffiatori tenevano un abbigliamento succinto, data l’alta temperatura vicino ai forni. Mentre negli Stati Uniti e in altri paesi non c’è differenza, in Italia sono ancora per lo più gli uomini che lo lavorano.

Come nasce “Identidad Desaparecida”?

Cinque anni fa l’American University Museum a Washington mi aveva proposto una mostra che ho pensato di incentrare su un tema sociale (tutto il mio lavoro in realtà ha a che fare con questo). Proprio in quel periodo mi ero avvicinata all’attività delle Nonne di Plaza de Mayo (l’associazione argentina fondata dalle famiglie colpite dai crimini commessi durante la dittatura militare dal 1976 al1983) e da questa esperienza è nata la prima versione del progetto che avevo intitolato “Identidad”. Tornata in Italia, ho contattato gli attivisti che si occupano di diritti umani in Argentina, i quali hanno immediatamente colto il potenziale del mio lavoro e lo hanno usato per le loro campagne di sensibilizzazione. Il risultato, dopo questo incontro, è diventato l’attuale “Identidad Desaparecida”, che ho esposto in luoghi molto sognificativi, a Buenos Aires alla sede dell’associazione delle Nonne di Plaza de Mayo, al museo di Belle Arti de La Plata, a Montevideo e poi a Barcellona, Parigi, al Museo dell’Olocausto di Riga e al Museo dell’Occupazione dell’Estonia a Tallin.
Di fatto è diventata una mostra itinerante, anzi è un’esperienza che continua ad arricchirsi di volta in volta.

Tu stai in Italia da tanto tempo, qual è il tuo rapporto con la storia argentina?

E’ stato proprio quando sono tornata in Argentina che ho potuto fare il punto della situazione.

Su di te e sulla tua poetica o anche su ciò che è successo durante il colpo di stato e la conseguente dittatura militare?

Soprattutto su di me. Ho sempre fatto fatica a riconoscermi come vittima, affrontavo l’argomento cercando di mantenere una certa distanza, descrivendo le vicende in modo essenziale. Poi questo lavoro mi ha riportata in Argentina, ho ripreso contatto con gli avvenimenti e compreso che la mia ferita è la stessa dei miei connazionali ed è ancora aperta. Abbiamo istallato la mostra nell’ex campo di concentramento (la Casa de las Abuelas de Plaza de Mayo_ Ex- Esma) a Buenos Aires dove sono stati imprigionati molti miei amici e anche una mia zia, dove molte ragazze hanno partorito, prima di sparire. Sono stata a stretto contatto con le nonne e con i nipoti che hanno recuperato la loro vera identità. In queste circostanze ho capito che molti miei lavori di questi anni, ai quali avevo dato altre valenze, in realtà presentavano ancora me come bambina sofferente e parte della generazione che ha dovuto confrontarsi con la dittatura e gli orrori che ha causato. Le nonne rappresentano la memoria e la speranza di giustizia.

La stessa speranza che ci accoglie già all’ingresso della tua mostra, qui a Murano, dove è istallata la tua opera “Identidad Recuperada”, una lunga fila costituita da 119 vestitini da neonato, di vetro colorato. Dall’inizio, il numero degli abitini è aumentato, perchè ad ognuno corrisponde un ragazzo ritrovato grazie all’operato dell’Associazione e ricongiunto alla famiglia e alla propria storia. Un avvenimento importante, una vittoria, ma anche il rivelare un evento estremamente doloroso e difficile da accettare, nel passato di queste persone

Da una parte c’è sempre una nascita, la parte gioiosa e positiva, ecco perchè gli abitini da neonato. Ma le implicazioni sono varie.
Tutti i vestitini sono differenti, alcuni hanno colori vivaci, altri meno e io voglio alludere alla storia di quei bambini, di quei ragazzi che hanno affrontato un processo difficilissimo come riacquistare la vera identità a trent’anni e sono loro che ricevono gli spettatori. Ho scelto come elemento il vetro perchè secondo me esprime perfettamente il concetto di resilienza. Proprio qui a Murano possiamo vedere oggetti prodotti alcune migliaia di anni fa, che portano i segni del tempo ma sono ancora in grado di parlarci di chi li ha fatti. Non sono tanto interessata alla fragilità di questo materiale ma, al contrario, alla capacità di resistere e conservarsi nel tempo. Mi ricorda la determinazione delle Nonne che durante la dittatura, tra estreme difficoltà, dalla loro condizioni di mamme, casalinghe, professioniste, si sono inventate un modo per contattare chi poteva dar loro informazioni sui parenti scomparsi, hanno parlato con medici, preti, ostetriche, ex desaparecidos sopravvissuti alla prigionia e stilato una lista di circa cinquecento nomi di bambini nati in quelle condizioni, che mancavano all’appello. Ora le Nonne sono invecchiate, ma sono considerate vere e proprie eroine, molto amate ed apprezzate e grazie alla loro ricerca, tanti nipoti sono stati ritrovati e sono entrati a loro volta nell’associazione per proseguire l’opera e avere giustizia e verità.

E tu sei intervenuta in tutto questo, facendo assumere all’arte una grande responsabilità…

Sì, è vero! E’ il mistero dell’arte… non si arriva ad una soluzione, come artista non ho risposte, ma posso mostrare, sotto vari punti di vista, mettere in evidenza, spostare lo sguardo, attivare delle domande.

Io vedo potenzialmente grande responsabilità e anche molta dignità, nell’arte. In una nostra chiacchierata di qualche anno fa, ad una fiera d’arte, si parlava anche di coraggio. Spesso l’arte contemporanea è molto provocatoria ma poco coraggiosa

Io vedo molto conformismo e anche molto passatismo. Poi ci sono le eccezioni, penso ad esempio al lavoro di Ai Weiwei sui rifugiati (a Berlino, l’artista ha creato un’istallazione con quattordici mila salvagente usati dai profughi diretti all’isola di Lesbo, avvolgendoli alle colonne del Konzerthaus) che certamente non rappresenta una soluzione al dramma, ma ci mette in condizione di vedere concretamente, immaginare e riflettere. Anch’io sto preparando alcune opere per la Settimana dell’Arte a Berlino, risultato di una residenza alla Berlin Glass e affronterò il tema dei profughi. Come artisti, creativi o anche semplici cittadini, non possiamo fingere di non vedere la realtà, le generazioni future ci chiederanno dove stavamo guardando quando succedeva tutto questo. Il solo pensiero mi angoscia molto. Non so se l’arte ha coraggio o se io stessa ho coraggio, ma so che l’arte mi permette di vedere e dire ad alta voce una parte di verità, contemplando anche la possibilità della speranza

Il tuo lavoro è popolato di bambini, ci sei anche tu bambina, con tua sorella e i vostri genitori. Hai usato le foto di famiglia sulle quali hai applicato altre tecniche, il video, l’istallazione, per veicolare i tuoi contenuti, ma il vetro rimane la costante, come mai questa scelta?

Tanto del mio lavoro è fatto di vetro. Oltre alla resilienza come si diceva, mi piace anche la componente seduttiva del vetro. Per esempio nell’opera “Plaza de Mayo”, l’immagine di me e mia sorella piccole è sormontata da coltelli di vetro bianco trasparente. Pensa se al posto di questi avessi usato coltelli veri…

Sarebbe stato un impatto molto più violento

Sì e io invece voglio anche alludere alla sensazione di pericolo che a volte ci sovrasta, indefinibile, perciò i coltelli sono trasparenti.  Di questo materiale mi interessa anche il fatto che lo usiamo nelle nostre case per proteggerci, per isolarci, per conservare il cibo, ci dà fiducia, lo portiamo alla bocca, una delle parti più intime del corpo, eppure il nostro cervello conserva l’informazione che il vetro, rompendosi, può farci del male.

Parallelamente, oltre al lavoro di artista, hai aperto il tuo laboratorio a chi vuole confrontarsi con l’esperienza della lavorazione del vetro, proponi workshop, insegni.

Insegnare è una parte che mi piace molto, mi permette di continuare ad imparare, si creano rapporti che a volte durano solo il periodo del corso, altre proseguono nel tempo, si approfondisce la conoscenza. Inizialmente ero sorpresa che mi invitassero ad insegnare, non pensavo fosse nelle mie corde, invece ho scoperto una grande risorsa.

E tu stessa hai avuto nel tuo percorso di formazione la possibilità di confrontarti con un’artista, una donna forte e controversa come Louise Bourgeois. Cosa ti ha lasciato questo incontro?

Louise Bourgeois diceva “Come artista io sono una persona che ha potere. Nella vita reale, mi sento come un topo dietro al termosifone…”. Anche a me succede la stessa cosa, è come se avessimo un nostro mondo dove ci sentiamo sicuri. Attraverso il contatto con lei ho imparato a parlare del mio lavoro in un modo diverso. Lei è stata una delle prime artiste ad affermare che l’arte era la sua vita, infatti sappiamo molto della sua storia personale e familiare, del rapporto con i genitori. Al contrario io ho avuto molto pudore, parlavo poco della mia famiglia, del mio vissuto. Mentre vedevamo con lei il mio lavoro, mi ha chiesto se avessi avuto un’infanzia problematica, cosa che per la verità mi succede ancora spesso, quando le persone si confrontano con le mie opere. L’arte per me non ha una valenza terapeutica, dicevo, come artista indago la realtà. E con questo liquidavo la questione.
Tutto ciò è relativamente vero, nel senso che non è necessario che io abbia vissuto ogni esperienza di cui mi occupo, però è innegabile che la mia visione della realtà sia, in parte, condizionata da quello che ho vissuto. Per cui il mio tentativo di creare una distanza tra storia personale e lavoro non funzionava e questo l’ho capito grazie a lei, quindi ho imparato a parlare del mio lavoro partendo dal mio vissuto, senza essere didascalica. Marcel Duchamp diceva che l’opera d’arte è completata dalle persone che la guardano. Pensare che l’opera riguardi solo l’artista, tenendo fuori tutto il resto, è anche un po’ arrogante. Dunque la visione globale di chi sono io, in questo mondo, adesso, mi aiuta ad esprimermi senza falsi pudori, senza troppe difese.

Informazioni

  • Identidad Desaparecida.
  • Un percorso tra storia personale e memoria di un paese  
  • Dal 12 marzo all’ 11 settembre 2016 Venezia, Museo del Vetro di Murano
    A cura di Silvia Levenson e Elena Povellato – Galleria Traghetto
  • Museo del Vetro
  • Fondamenta Giustinian 8, 30121 Murano
  • Tel. +39 041 5274718 Fax +39 041 5275120
  • Email museo.vetro@fmcvenezia.it
    www.museovetro.visitmuve.it/it/mostre/mostre-in-corso/mostra-silvia-levenson/2016/02/16589/identidad-desaparecida/
  • Orari:
    dal 1 aprile al 31 ottobre 10.00 – 18.00 (biglietteria 10.00 – 17.00)
    dal 1 novembre al 31 marzo 10.00 – 17.00 (biglietteria 10.00 – 16.00)
    APERTURE SPECIALI  Lunedì 25 Aprile 2016  e Domenica 1 Maggio 2016
  • Catalogo Punto Marte Editore, Soligo (TV), 2016
  • A cura di Elena Povellato, introduzioni di Gabriella Belli e Chiara Squarcina
  • Testi di Manuela De Leonardis e Silvia Levenson
  • Sito personale dell’artista www.silvialevenson.com
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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