Concettuale. Ragionare su ciò che rende arte l’arte.

one and three chairs
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Con l’espressione concettuale ci imbattiamo in un caso non insolito nel vocabolario dell’estetica. Questo aggettivo ha un significato storico ben preciso: l’arte concettuale nasce quando Joseph Kosuth espone la sua opera Una e tre sedie, fatta da una sedia, una fotografia della sedia e la riproduzione stampata, in grandi dimensioni, della voce “sedia” di un vocabolario. Il significato di questa volontà artistica era chiaro: far meditare sul rapporto e sul valore reciproco delle parole  delle immagini in rapporto a ciò che chiamiamo “realtà”. L’intenzione è molto forte: neutralizzare qualunque questione riguardo il piacere estetico nel modo più radicale: eliminandolo. Il concetto dice, logicamente e semioticamente, tutto il necessario per fruire dell’opera. Il piacere non serve.

La storia dell’arte concettuale è molto ricca, pur essendo cominciata non molto tempo fa – quel lavoro di Kosuth è del ’65. Gli esiti sono molto diversi: per qualche storico dell’arte si tratta di “concettuale” anche nel caso degli impacchettamenti di Christo o delle pericolose performance di Chris Burden. La fortuna della parola ha seguito però anche un’altra strada oltre a quella storicamente principale.

“Concettuale” lo si usa spesso per identificare un’arte – un’opera o un movimento – nel quale il peso teorico e programmatico eccede rispetto a una misura accettabile o gradevole; l’aggettivo cioè passa a identificare un prodotto artistico che sostanzialmente fallisce nel suo intento perché troppo sbilanciato nel proporre un’idea, una teoria, un significato. Concettuale sarebbe quindi tutta quell’arte che ne proporsi costringe il fruitore a pensare “troppo”, o a riflettere sull’opera solo nel modo consentito dall’autore. Ma tutto ciò non c’entra col concettuale – semmai è semplicemente un modo di constatare che l’opera non è riuscita molto bene.

L’arte concettuale è invece un tentativo molto serio e profondo – oserei dire necessario – che molti artisti hanno fatto per costringere i fruitori a riflettere insieme, cioè non solo da artisti ma anche da spettatori, sullo statuto dell’arte, su cosa essa sia e cosa dovrebbe essere per un grande pubblico. In questo senso più familiare a molti è un tentativo noto e provocatorio, leggermente precedente a Kosuth ma schiettamente concettuale: la Merda d’artista di Manzoni. Il piacere del fruitore è evidentemente molto scarso, ma l’invito a ragionare su ciò che rende arte l’arte – e su ciò che si può rendere arte grazie al linguaggio e all’immagine – è irresistibile.

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Lorenzo Gasparrini Dottore di ricerca in Estetica, dopo anni di attività universitaria a Roma, Ascoli, Narni in filosofia, scienze della formazione, informatica, ora è editor per un editore scientifico internazionale. Attivista antisessista, blogger compulsivo, ciclista assiduo, interessato a tutti gli usi e costumi del linguaggio.

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