Maria Paiato, sciamano per un “Amuleto”

Maria Paiato, Amuleto - ph. ecodellevalli.tv

Le luci ancora non sono del tutto spente, l’attenzione ancora non c’è. Entra una donna: gonna lunga e colorata, calze azzurre, un gilet ricamato: il tipico abito messicano, che sarebbe stato amato da Frida Khalo. Così si mostra Auxilio Lacouture.

Ė arrivata a Città del Messico da Montevideo, Uruguay, senza sapere nè come nè perchè, per diventare «La madre di tutti i poeti messicani». Troverà lavoro come tuttofare alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di giorno, per  poi condividere, la vita bohemiènne dei giovani artisti, nei bar e nelle notti messicane.
In questo scenario si muove Amuleto, andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano.

Ma «questa è una storia dell’orrore, anche se non sembrerà. Non sembrerà perchè sono io a raccontarla». Auxilio – nome parlante che incarna aiuto e protezione, sia nel nome che nel quotidiano – è svolgendo il proprio compito all’università che si trova piombata nell’orrore, in una pagina nera della storia del sud America e non solo.

Auxilio è chiusa nel bagno delle donne dell’Università, il giorno di settembre del 1968 in cui i reparti speciali delle forze dell’ordine entrano nell’ateneo, dando inizio a un ecatombe: il massacro degli studenti che si erano opposti al regime.

Resterà in quel bagno, sforzandosi di non sentire fame e paura, per molti giorni, che nel suo racconto si confondono e si mescolano ad un affastellarsi di piani temporali, e di spazi indefiniti.
Si raccontano verità della storia, da cui vengono sia Auxilio che le persone che incontra – dal pittore inquietante Carlos Coffen Serpas al poeta Arturito Belano, alter ego dell’autore del testo, Roberto Bolano, uno dei più grandi scrittori del Novecento.

Accanto ed insieme ad esse, però, la prosa lirica e immaginifica tipica degli scrittori sudamericani fa dei personaggi un simbolo, un paradigma che unisce umile, folle ed eroico.

Così Auxilio, la novella Erigone, dimessa e inafferrabile insieme, cammina accanto ai giovani e li osserva, accompagnandoli, simboli di un’epoca che forse è un intero mondo, verso il baratro del disfacimento.

Auxilio Lacouture è una Maria Paiato in stato di grazia, che incarna questa donna con un’intensità quasi sciamanica, tra sussurri ed improvvisi deliri di onnipotenza, dramma e visioni. Anche la complessità dell’intreccio diventa un punto di forza, perchè le dà modo di avvincere gli uditori, in un racconto che va vissuto intimamente, prima che compreso o ricostruito.

Un monologo con un’impostazione quasi mistica ed insieme sanguigna, come solo il talento e la sensibilità dei migliori interpreti ed autori, insieme alle atmsofere di  certo sud America, possono creare.
A cesellare un risultato di questo tenore, scelte sceniche coraggiose e intelligenti, e la regia di Riccardo Massai che affida alla Paiato un compito estremamente complesso: la scena è completamente vuota (e del resto, cosa si sarebbe potuto aggiungere?) e per larghi tratti dello spettacolo, l’attrice è completamente ferma.
Questa completa assenza di scena ed il lavoro di sottrazione di tutto ciò che non si è evidentemente ritenuto necessario, lungi dall’essere dei dei limiti, rafforzano la capacità evocativa del racconto e della voce, che si poesia nel suo senso etimologico: costruisce la realtà di per sè stessa.
Eppure la Paiato riesce ad affascinare la platea senza cali per un ora e mezza, nella posizione più complessa per un attore, la totale assenza di appigli scenici da cui farsi supportare se non un affascinante gioco di luci, che segue la prospettiva dei suoi occhi e dei suoi sentimenti.

Non solo, ma al di là del fascino e del racconto di una pagina di storia, nei piani di questa vicenda si ritrovano degli specchi nei quali ciascuno trova sè stesso, le speranze, i sogni, le illusioni. Un racconto di vita, anche sull’orlo del baratro.
Proprio qui, all’ultimo istante, il racconto diventa canto. Un impeto di incoscienza di sé o sfida al mondo? Non è dato sapere, e forse è opportuno anche evitare di chiederselo, perché è «l’unica cosa che ci può salvare, il nostro amuleto».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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