Il Paradiso inclinato all’exDogana. Tonalità emozionale di frontiera e di scossa

Tomio con Bonito Oliva nell'opera installativa di Tresoldi

In tutta sincerità non sapremmo dire se la missione dell’ampia collettiva  Il Paradiso inclinato abbia fornito una chiave per aprire la “progettazione del futuro”, come nelle intenzioni del curatore Luca Tomio. Quel che è certo è che si sia posta come mozione –esuberante e per nulla accademica – di dialogo: tra generazioni di artisti, tra ricerche e temperature, tra l’arte e le arti e con un posto di frontiera. Tale è ExDogana nel quartiere San Lorenzo di Roma. A riguardo, ci dice proprio il curatore Tomio:

“Quando Eugenio Massaccesi (responsabile dello spazio, n.d.R.) mi ha chiesto di organizzare la mostra inaugurale delle attività culturali di ExDogana ho accettato perché un’ex dogana è il luogo migliore dove annullare i confini, gli steccati che insteriliscono l’arte. Era il luogo perfetto, provvisorio, non istituzionale, per scuotere dal torpore e riattivare la dialettica tra le generazioni.”

Così, questo luogo del passaggio – delle merci, appunto, delle attività (qui si fa musica, si balla, si beve e si mangia, si guardano film, c’è sfilata la Moda…) e delle persone – oggi ferma la transitorietà per darci qualcosa che resta: l’Arte. Ha, infatti, aperto le sue porte a una poderosa intenzione culturale e visiva contemporanea che ha cercato di avvicinare – ecco un altro dialogo – giovani, più avvezzi alla Night-Culture, ai lavori di Emilio Prini, Gino De Dominicis, Tano Festa, Cesare Tacchi, Alighiero Boetti, Salvo, Pier Paolo Calzolari, Jannis Kounellis, Mario Schifano, Giulio Paolini, Luigi Ontani, Pizzi Cannella, Sol LeWitt, Pistoletto, De Maria. Questi alcuni dei nomi storici le cui opere campeggiano alle pareti vissute dello spazio espositivo; pareti carente di luce ottimale, di nitore da scatola bianca, di asettica atmosfera museale: vivaddio, verrebbe da aggiungere. Infatti, è anche tale non conformità alla più abituale spazialità allestitiva, accanto alla scelta delle opere e alla loro disposizione per assonanze (più che per dissonanze: si veda la sala con Leonardo Petrucci vs Gino De Dominicis), a dare a questa collettiva un’interessante tonalità emozionale (come ebbe a dire parlando di una certa narrazione degli anni Settanta un arguto filosofo come Lucio Saviani). Interessante, sì, perché vivace, trasversale, piena di forma strettamente connessa al contenuto: qualche volta più accattivante, come sono le cosmogonie belle e problematiche di Alberto Di Fabio; da lasciare senza fiato, come l’enorme Basilica di Siponto di Edoardo Tresoldi tradotta in una resa leggerissima, trama e ordito, parvenza di realtà; minacciosa nella leggiadria cromatica per Luigi Puxeddu; piena, come i quadri di Pietro Ruffo; magnificamente aperta, come l’opera camminante di Borondo, che scandisce passi e tempo; sfacciata, come l’intervento di SBAGLIATO; ficcante nell’annullamento che Luana Perilli fa del realismo in virtù dell’universalizzazione linguistica; più concettualistico come l’installazione che sparpaglia i colori di Alberonero,  i piani che rimandano al corporeo di Veronica Vazquez, il gioco tra pesantezza/leggerezza, tangibile/ impalpabile di Daniele Deca De Carolis e la semplicità profonda, einsteinianamente, di  Arcangelo Sassolino che sa alleggerire il mandato degli elementi. E ancora: poverista, di Eracle Dartizio, che media tra dimensione piatta, a terra, e tridimensionale in alto, quasi in tensione verso l’infinito; intimista (Rossella Fumasoni); ottico-visionarie-alchemiche (Karine Sutyagina); di multisettorialità  (Duskmann); citazionista, che uccide i padri, eternandoli (Alessandro Giannì);  dell’incontro/scontro palesato da Andreco tra cultura (Uomo) e paesaggio (Natura); di richiesta che tradisce il sentimento di far parte di qualcosa (Mariana Ferratto).

Opere allestite quasi da coup de théâtre carbonaro (ma avrebbe fatto bene, a molto pubblico acerbo, avere didascalie, schede e quant’altro d’aiuto alla lettura più agevole delle opere), che fa riemergere reminiscenze – pure rinverdite nei migliori anni Novanta dell’arte fuori-circuito – Sixteen e Seventeen; quando, tra l’altro, Roma (citata anche da Gea Casolaro nella sua Visioni dall’Eur) era stata a lungo una sorprendente palestra artistica di sperimentazione e di incontro non solo generazionale ma anche linguistico.

La conferma ci arriva ancora da Tomio:

“Cy Twombly diceva che la Roma degli anni ‘60/’70 era un paradiso… Ma perché non riattivarlo, questo paradiso, appunto, con un’operazione a sorpresa, inaspettata, un’incursione alla Achille Bonito Oliva che non a caso mi ha spalleggiato e incoraggiato grazie al suo fiuto sempre affilatissimo…? Ma la cosa più sorprendente, lasciamelo dire, è che una mostra di questo tenore, non istituzionale, messa insieme in un mese, dall’impronta avanguardiastica, sia stata nobilitata dal patrocinio del Ministro Franceschini. Questo fatto e la grande risposta di pubblico (2500 persone all’inaugurazione e 500 visitatori nei giorni successivi) dimostra che è venuto il tempo per l’arte di uscire dagli asfittici ambiti di settore…”.

Meglio sarebbe dire: “riuscire”, perché, ancora una volta, dopo l’Avanguardia futurista e Dada, passando per Fluxus, gli anni Sessanta e Settanta, compresi di controculture, hanno spalancato porte e finestre, entrando nei gangli della quotidianità: da un’ex autorimessa a Torino (DDP, ovvero Deposito d’Arte Presente, nel breve ma intenso periodo 1966-69) alla strada (tra i tanti esempi: Con temp l’azione, a cura di Daniela Palazzoli,  dicembre 1967, con la Sfera di giornali che Michelangelo Pistoletto fece rotolare collegando le tre sedi espositive Il Punto, Christian Stein e Sperone), a un ex garage a Roma (con il trasloco dell’Attico dalla più borghese Piazza di Spagna alla scelta più off  di Via Beccaria da parte del giovane Fabio Sargentini, che inaugurò il 14 gennaio 1969 con i famosi dodici cavalli vivi e vegeti di Kounellis) a un parcheggio-garage sotterraneo di Villa Borghese a Roma (trasformato dall’arte e dagli eventi di Contemporanea, curata da Achille Bonito Oliva nel novembre 1973). Quelle esposizioni, quegli spazi “verité” – parafrasando Tommaso Trini in riferimento a Teatro delle mostre (La Tartaruga, Roma, 1968), quel fermento e quella costruzione rinnovativa dell’arte e della mostra intesa come medium sembrano ora tornare, come anelito di atmosfera in ebollizione, in questo Il Paradiso perduto, seppure con tonalità del tutto sue, anni Duemila, che svelano il desiderio – che la collettiva sembra suggerire – di mettere la basi per una nuova primavera nel senso di risveglio.

Tomio ne è certo:

“L’arte cammina tra la gente… la gente è pronta e la funzione dell’arte sta diventando sempre più quello che Joseph Beuys chiamava scultura sociale. Qualcosa sta davvero cambiando… una specie di rivoluzione dolce, una soft revolution!”

Al di là degli slogan, questa campionatura (una possibile) si basa molto su tali intenti curatoriali che rendono il senso di questa volontà movimentista. E anche l’Arte sa di aver bisogno di una qualche rinascita – e meno speculativa, please – come sa, anche, che è la collettività ad avere questa necessità; così, non dà soluzioni – l’arte non lo fa mai – ma pone interrogativi, mette a disposizione nuovi punti di osservazione sulla realtà sia sensibile sia immateriale e, così facendo, pare – come in questo Paradiso perduto – suggerire che si può e si deve fare della crisi una risorsa, della decadenza resilienza, della lamentela alternativa, dell’oscurità chiarore… Del resto, si sa, Le cose non crescono al buio (Matteo Nasini).


Info mostra

Si ringrazia Giorgio Benni per la gran parte delle foto pubblicate

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Con una Laurea in Storia dell'Arte, è Storica e Critica d’arte, curatrice di mostre, organizzatrice di eventi culturali, docente e professionista di settore con una spiccata propensione alla divulgazione tramite convegni, giornate di studio, master, articoli, mostre e Residenze, direzioni di programmi culturali, l’insegnamento, video online e attraverso la presenza attiva su più media e i Social. Ha scritto sui quotidiani "Paese Sera", "Liberazione", il settimanale "Liberazione della Domenica", più saltuariamente su altri quotidiani ("Il Manifesto", "Gli Altri"), su periodici e webmagazine; ha curato centinaia di mostre in musei, gallerie e spazi alternativi, occupandosi, già negli anni Novanta, di contaminazione linguistica, di Arte e artisti protagonisti della sperimentazione anni Sessanta a Roma, di Street Art, di Fotografia, di artisti emergenti e di produzione meno mainstream. Ha redatto e scritto centinaia di cataloghi d’arte e saggi in altri libri e pubblicazioni: tutte attività che svolge tutt’ora. E' stato membro della Commissione DIVAG-Divulgazione e Valorizzazione Arte Giovane per conto della Soprintendenza Speciale PSAE e Polo Museale Romano e Art Curator dell'area dell'Arte Visiva Contemporanea presso il MUSAP - Museo e Fondazione Arazzeria di Penne (Pescara), per il quale ha curato alcune mostre al MACRO Roma e in altri spazi pubblici (2017 e 2018). È cofondatrice di AntiVirus Gallery, archivio fotografico e laboratorio di idee e di progetti afferente al rapporto tra Territorio e Fotografia dal respiro internazionale e in continuo aggiornamento ed è cofondatrice di "art a part of cult(ure)” di cui è anche Caporedattore.

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