Fotografia Europea 2016. Via Emilia a più linguaggi

© Diego Barletti - allestimento Chiostri di San Pietro, Fotografia Europea 2016

Difficile raccontare la via Emilia con il bagaglio rappresentativo ed immaginifico che possiede. La soluzione sta proprio nel non mettersi a tavolino a fare paragoni. L’Emilia di Ghirri, di Barbieri, di Guidi era un’altra Emilia, ma soprattutto la fotografia stessa era un’altra fotografia e il concetto di “fotografia di paesaggio” era un altro concetto rispetto ad ora. È giusto, come è stato scelto per Fotografia Europea 2016, che quella tradizione iconografica – che a sua volta, negli anni ’80, si apprestava a spaccare gli schemi rispetto ad un suo passato fotografico – sia stata un autorevole incipit per una ricerca fotografica che attualizza il territorio emiliano e le sue rappresentazioni.

Si parte così, ai Chiostri di San Pietro, con la Storia, con la rievocazione  di alcune pietre miliari del paesaggio emiliano: Barbieri, Basilico, Chiaramonte, Castella, Ghirri, Guidi, Jodice, Fossati, Kinold, Nori, White e Willmann; chiamati nel 1986 da Luigi Ghirri a reinterpretare il paesaggio emiliano, e in generale le sue modalità di rappresentazione, in una storica mostra collettiva Esplorazioni sulla via Emilia. Vedute nel paesaggio.

1986. Esplorazioni sulla via Emilia si riserva di farci rivivere quel passaggio che fu epocale per la fotografia. Il materiale storico di lavorazione – dalla maquette ai provini a contatto – viene esposto insieme ad una selezione di immagini del 1986 per conferirne il senso temporale e la funzione di modello per quello che allora sarebbe stato il futuro e il nostro presente. Non più fotografie “cartolina”, ma una banale quotidianità che apre le porte ad un’estetica del vissuto.

Quello era il 1986, oggi la realtà è diversa. Tutto è cambiato in primis la società e il suo territorio, compresa anche quella “banalità del quotidiano” tanto fotografata e teorizzata. Senza entrare nel merito di una loro evoluzione o involuzione, la loro rappresentazione ha trovato altri scenari, altri scenari del nostro vivere. Oltre ad un approccio che rimane documentaristico, in molti hanno intrapreso la strada di un paesaggio in continuo dialogo con il reale, l’immaginario e il simbolico. Appropriarsi del reale per riplasmarlo in altro, conferendogli un senso subliminale, molto spesso critico. Paesaggi che trovano il loro punto di forza nel labile confine tra realtà e finzione, tra artificiale e naturale, portando chi li guarda a trovarsi in dubbio sulla vera natura dell’immagine. Non si tratta più di godere della bellezza di un’estetica del vissuto ma è il tempo dei dubbi e delle domande attraverso l’immagine.

Questo è il gioco di Paolo Ventura, grande poeta visuale, che con le sue immagini di una realtà già di suo rappresentata si è fatto strada  nell’ambiguità meta-fotografica. La sua Via Emilia ti fa avvicinare per capirne gli elementi, la loro definizione, i loro confini, cosa è fotografico e cosa è pittorico.

Lo spaesamento è un sentimento che rimette in gioco le proprie certezze, in questo caso visive, ciò che si crede di vedere. Qual’è la vera natura dell’immagine, il suo significato, cosa suggerisce, rimanda, innesca? Quando la fotografia è solo uno degli elementi o mezzo che compongono la sintesi di un processo creativo molto più complesso? Sono proprio queste le domande che hanno dato materia ad una rappresentazione fotografica altra, ad un cambiamento meta-linguistico. E su ciò Fotografia Europea 2016 ha puntato la sua attenzione, ricavandone una resa molto interessante con Alain Bublex, Stefano Graziani, Antonio Rovaldi, Sebastian Strumpf, Davide Tranchina e Lorenzo Vitturi, aggiungendo ad essi anche l’ironia critica dello sguardo di Filippo Minelli in Padania Classics, che porta a galla un’archeologia visiva e paradossale della Pianura Padana.

Con la ricchezza e validità di linguaggi con cui è stata rappresentata la via Emilia, il vero focus di Fotografia Europea 2016 non è stato solo  l’oggetto rappresentato ma anche e soprattutto i medium che sono intervenuti a rappresentarlo.

A testimonianza, qui, di questa lettura Italy&Italy di Luca Santese e Pasquale Bove, un progetto di fotografie d’archivio che mettono in scena, negli spazi dei Chiostri di San Domenico, la Rimini anni ’90; quella della vita notturna, dei politici, dei vip, degli eccessi ma anche della vita comune dei venditori di salamelle alle feste dell’Unità. Un’orchestrazione che va al di là dell’immagine in sé, che prende forma e vita dalla selezione di 500 scatti su 2000 appartenenti all’archivio di Pasquale Bove, fotografo di cronaca; sull’approccio installativo usato; su tutti quegli elementi meta-fotografici che ne hanno intessuto la struttura portante.

Il festival emiliano è un piacevole ed interessante continuum fotografico tra passato e nuovi linguaggi, in cui si percepisce la fotografia in molte delle sue evoluzioni e delle sue funzionalità. Facendo fare un salto nel 1978, tra divertenti palle stroboscopiche e paillettes, allo Spazio Gerra è esposta Dancing in Emilia, un progetto storico-sociale con cui Gabriele Basilico indagò il nuovo fenomeno delle discoteche emiliane e dei costumi sociali in chiaro mutamento. Il risultato fu uno spaccato cangiante, in cui musica, immagine e moda confluirono per dare un volto nuovo alla società.

Fiore all’occhiello di Fotografia Europea due emozionanti mostre di Walker Evans a Palazzo MagnaniWalker Evans. Anonymous che inquadra il lavoro di Evans su diverse riviste americane dal 1929 e Walker Evans. Italia in cui si palesa l’influenza che il fotografo americano esercitò su quei fotografi italiani che avevano fatto  dell’estetica del vissuto la loro poetica portante e con cui Fotografia Europea 2016 ha intelligentemente aperto e chiuso il cerchio espositivo. Nel mare magnum dei festival fotografici si può dire che Fotografia Europea 2016 qualcosa di nuovo l’abbia detto e l’abbia mostrato. In più è sempre un piacere tornare in questo contesto così conviviale e accogliente.

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Laureata in Lettere e Filosofia indirizzo giornalistico con una tesi sulla fotografia psichiatrica, con citazione di tale ricerca nella versione anastatica di “Morire di classe” (Einaudi, 1969), fotoreportage di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che nel 2009 Duemilauno-Agenzia Sociale ha ristampato, è giornalista pubblicista dal 2008. Dal 2010 lavora presso Palombi Editori in mansioni commerciali e di distribuzione. Ha scritto per numerose riviste d'arte e curato mostre seguendo autori che praticano il linguaggio fotografico e progetti di critica fotografica. Tale attività prosegue attualmente.

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