Do the wrong thing (tutta la verità su Huckleberry Finn)

cop Tuena
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Sarà difficile raccontarti questa storia se non hai letto Le avventure di Huckleberry Finn, ma non importa, ci proverò lo stesso.
Basta che tu sia disposto a navigare con noi sulle onde del grande Mississipi e a sopportare le angherie di un ragazzino scanzonato.

D’altronde anche io lo conobbi per caso, perché non mi fu presentato a scuola, né lessi mai di lui in precedenza; fu invece Huckleberry a trovare me, in modo inaspettato. Fortuito, aggiungerei, se gli eventi della vita fossero casuali e non mossi da un destino gagliardo.

Quando conobbi l’eroe del romanzo di Mark Twain, vivevo giorni scanditi da una rigida disciplina, tra la scuola di suore e le regole del vivere quotidiano, ma leggevo moltissimo, a volte di nascosto, fingendo di studiare.

Non fu però così che incontrai Huckleberry Finn: lui era un ribelle e dentro gli angusti scaffali di una libreria si sarebbe sempre trovato scomodo. Non mi sorprese, quindi, che mi avesse aspettata fuori della scuola, nel parco giochi accanto all’istituto, tra un cespuglio di filadelfo, che delimitava la recinzione ed una panchina.

A chi potrà mai appartenere?”, mi chiesi raccogliendolo dal prato: aveva la copertina gualcita, una vecchia edizione economica, dalle pagine consunte…

Quel giorno del mio undicesimo compleanno, avevamo improvvisato con alcune compagne una specie di teatrino all’aperto e Huckleberry balzò fuori dal libro. Confesso che fui tentata di lasciarlo lì, appoggiato su quella panchina: avevo dato una sbirciatina e dalle pagine era esalato uno sgradevole odore di muffa… Ma prevalse il rispetto per i libri e lo consegnai ad una professoressa.

Se l’avessi abbandonato, di certo avrei perso un’occasione importante per capire il senso della parola “libertà”.

Così, quel pomeriggio di maggio, fui invitata dagli insegnanti a mostrare il volumetto nelle varie aule, per rintracciarne il possessore. Io e Huck vagammo di classe, in classe, di fronte ad alunni ed insegnanti incuriositi. Pensandoci ora, non mi sorprende che lo sguardo birbo del ragazzino ritratto in copertina, apparisse quasi canzonatorio a quella brava gente. Così cencioso e malmesso, come pure il libro: tanto logoro che una professoressa si offerse di ripararne la rilegatura, quasi a voler rendere presentabile quel piccolo selvaggio.
Ma non fu possibile risalire al proprietario, e allora, in attesa che qualcuno lo reclamasse, mi impegnai a custodirlo io stessa.

Non hai capito? Era proprio te che cercavo!”, mi sussurrò una vocina dalle pagine del libro.

Io lo osservai un po’ smarrita: quell’aspetto sciatto ed unto, come il suo protagonista e… metterlo assieme ai volumi lindi della biblioteca, figuriamoci!
Durante quei pochi anni di vita vissuta, mi era stato subito chiaro che la gente apprezzava di più chi si presentasse ben curato ed elegante. Una società, la nostra, sospettosa di fronte a disordine, sporcizia e povertà di mezzi.

L’abito non fa il monaco”… avevo sentito dire, ma era una voce fuori dal coro.

Nessuno poteva immaginare quanto fossi incuriosita da quel popolo di dimenticati: i senzatetto, gli emarginati, quelli che vagavano in strada con un corredo di stracci inzeppati in un carrello della spesa: mi figuravo che i luoghi comuni che sentivo ripetere, fossero messi a bella posta per impedirmi di conoscere qualcosa, forse un mondo vero.
Ma di certo lui, Huck, ai grandi doveva sembrare proprio un piccolo discolo, insubordinato, che da grande sarebbe stato di certo un poco di buono… pensai, mentre lo guardavo in un’illustrazione che lo ritraeva sopra una zattera, con i capelli scarmigliati e lo sguardo dispettoso.
Per un attimo mi sembrò anche di sentire lo sciabordio della barca sul fiume ed allora provai un guizzo, una felicità subitanea: come doveva essere bello partire all’avventura!

Ma d’altra parte era facilissimo esecrare Huck: te ne forniva mille motivi e di certo nessuno lo avrebbe preso ad esempio per l’educazione dei propri figli o per intimare ad un allievo di comportarsi adeguatamente, di essere conforme alle regole
Huck rappresentava un popolo di diseredati, sopravvissuto tra gli stenti di famiglie disgraziate, cosa mi attrasse allora in quel fanciullo?

Sulle nostre coste non era ancora sbarcata tanta gente, infagottata, ferita e stanca, con la morte negli occhi e la speranza nel cuore… e, d’altra parte, noi italiani avevamo dimenticato molto in fretta un passato fatto di valige avvolte con lo spago, calzoni rammendati e figlioli dai visetti smunti.
Ma oggi non ho dubbi che quel romanzo di Mark Twain mi abbia aiutata a farmi un’opinione sulle vicende del mondo.

Comunque, quel giorno, riposi il libro sotto il banco; non osai portarlo a casa per timore che fosse gettato via, nell’estremo spregio che veniva comminato ai libri vecchi, di edizioni poco pregiate.
E un po’ per curiosità, un po’ per l’indolenza di quei pomeriggi al doposcuola, iniziai a sfogliarne distrattamente le pagine…

Seguimi”, sussurrò subito la vocina, “ti racconterò di me e Jim che solchiamo le rapide del grande fiume, ti parlerò di lui che scappa dalla schiavitù e di me che lo nascondo…”

Sembrava lo stesso tono birichino che avevano ascoltato tanti bambini, quando insegnanti e genitori avevano letto loro quella storia, al di là dell’oceano e poi nella vecchia Europa…Ma neanche Mark Twain, che aveva scritto il primo romanzo, Le avventure di Tom Sawyer, aveva compreso immediatamente la forza di quell’amico del suo protagonista.

Huckleberry era un piccolo intrigante, pieno di orgoglio e fierezza. L’autore del libro cercò di nascondere la sua simpatia di fronte ad un pubblico di benpensanti, accentuando le ben più modeste imprese di Tom Sawyer, ma in un dissenso silenzioso, disperse i semi dei suoi ideali lungo quelle pagine.
Poi rimediò otto anni più tardi, dedicando un intero romanzo all’intraprendente ragazzino, un racconto che fu subito definito “picaresco”. Trattava cioè le storie di briganti e bricconi, senza legge, come furono i compagni di traversata di Huck, due loschi truffatori che avevano profittato del gran cuore di Jim, lo schiavo fuggitivo e di quello del protagonista del libro, per compiere una serie di crimini contro la legge.

Ma cosa c’entrava Huckleberry con loro?”, direte voi… non saprei rispondervi, ma una legge ferrea del vivere civile chiosava sin d’allora “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”…
Per fortuna ci fu anche chi riconobbe, in seguito, che da quel romanzo di Mark Twain era discesa tutta la letteratura americana.

Ad Huckleberry non fu difficile convincermi a seguirlo: mi portò con sé all’avventura, e dovetti acquisire abbastanza coraggio per vivere in quella natura selvaggia, affrontare prodezze e ribellarmi assieme a lui a regole vetuste.

Mi dissero che, al pari di Lucignolo descritto dal nostro Carlo Collodi, mi avrebbe condotta sulla cattiva strada, ma nessuna morale bigotta gli fece crescere le orecchie d’asino, per impedirgli di essere felice.
Così fui testimone delle sue straordinarie vicende e pure di quelle del suo amico, Jim, sfuggito ai ceppi :

Tutti dicevano che avessi fatto una cosa eroica a salvare Jim dalla schiavitù, ma non era stato così: era stato Jim a salvare me. Non avevo ancora capito che in certi casi era meglio fare una cosa sbagliata, che fare una cosa giusta: infatti tanta brava gente mi diceva che era sbagliato aiutare uno schiavo a scappare. E anche io pensavo che sarei andato all’inferno per quello. Ma avevo seguito il mio istinto. La verità è che Jim mi rese libero, ma, fino ad allora, non avevo ancora capito cosa volesse dire essere libero…

Forse non è per caso che il mio pensiero corra a quel vecchio libro, in tempi come i nostri, dove folle di gente allo sbando fuggono la cattività e la sopraffazione.
In tempi di ingiustizia e codardie, di aspirazioni all’emancipazione di interi popoli, di tirannie mostruose, ma anche più silenziose e sottili, forse riesco ancora ad immaginare cosa direbbe Huck:

Ho sentito dire che hanno istituito una festa per la Statua della Libertà nel mio paese. La libertà c’entra tanto col mio libro, perciò penso che sia anche un po’ la mia festa!
Sai, da più di 130 anni quella statua sul fiume Hudson, accoglie la gente che arriva in America da ogni parte del mondo e sta lì per dire a tutti che sei arrivato nella patria degli uomini e delle donne libere e che non sei più abbandonato a te stesso. Ma io credo che tutta la gente che parte alla ricerca di una patria, si debba sentire sola. Chiunque fugga verso la libertà, deve essere solo per forza, perché sta abbandonando per sempre la sua casa e non importa quanto poco accogliente o limitante possa essere stato quel posto che chiamavano casa…”.

Per un attimo le parole di Huck accendono mille memorie: io che fuggo di casa a 18 anni con il sogno di raggiungere gli States, il mio bisnonno che solca gli oceani alla ricerca di fortuna, le amiche della mia prozia, scampate alla deportazione nazista del ghetto di Roma, partendo tempestivamente per l’America. E poi in un lampo vedo i volti di tanta gente, tutti quegli emigrati, rifugiati, disperati, sognatori che portarono a termine quel viaggio e mi chiedo: sarà apparsa anche a loro così potente e magnifica quella statua che svetta sul porto di New York?
Da dove proveniva il desiderio di riscattarsi da un’esistenza disgraziata, da dove lo spirito indomito che faceva affrontare il pericolo e la lontananza da tutto ciò che era familiare?

Ma ho un sussulto quando Huck soggiunge:

Se sei costretto ad abbandonare la tua casa, non c’è davvero solitudine più grande.

E poi c’è un altro discorso: quello che devi decidere è se ti senti più solo nel fare le cose che gli altri ritengono essere giuste o nel fare le cose che gli altri ritengono essere sbagliate, perché c’è una grande differenza in questo.
Quando avevo scelto di risalire il grande Mississipi, avevo avuto paura, ma il mio posto era il fiume, anche se molti non erano d’accordo.

Non è detto che si debba stare dove gli altri vogliono che tu stia, dipende da quanto sei disposto a rischiare per tener fede a ciò in cui credi, dipende da quanto desideri essere libero.

Il mondo in cui vivete oggi non è molto diverso da quello di allora, le cose brutte sono ancora tante e pure le guerre, che combattete in nome di un senso di giustizia non sempre condivisibile.
Quella civiltà che chiamate tale è appesantita da obblighi non sempre giustificati dal principio di vivere onestamente ed in pace con gli altri.

Ma devi sapere una cosa sul posto dove sono nato e su quella gente: gli americani erano un popolo composto di persone emigrate d’ogni parte del mondo e tutti insieme avevano imparato a fare benissimo un sacco di cose: creare lavoro, fare sport, inventare giochi nuovi, divertirsi, costruire macchine e fare films, ma, quello che è più importante di tutto, è che avevano saputo dare una nuova speranza alla gente e per farlo avevano dovuto imparare cosa volesse dire la parola “libertà”.

Ecco perché penso che, senza di essa, non potranno essere felici.
Forse per questo la Statua della Libertà ha una torcia in mano: perché ci si ricordi da dove si viene e dove si va, ma sopratutto per illuminare una strada che prima era buia.
Spero che la gente del mondo se ne ricordi”.

Potrei ancora commuovermi ascoltando Huck, persino ora che ho raggiunto quasi l’età di zia Polly del romanzo; ma non vorrei che lui fosse incasellato nel vivere civile, se questo volesse dire fargli perdere la sua identità ed indipendenza di pensiero.
Leggerei una volta ancora quel libro, per poi chiuderlo e stringerlo a me, con lo sguardo perso ed il cuore in tumulto: credere nei grandi ideali è essenziale per nutrire lo spirito che alberga in noi.

Ma un giorno quel libro era scomparso, misteriosamente come era arrivato, “gettato via”, avevano detto… per conto mio, ero sicura che l’avesse fatta franca e fosse tornato in un parco, dove qualche bambino lo avrebbe trovato.
E a sua volta, quando quel bimbo fosse diventato vecchio, lo avrebbe lasciato cadere oltre la recinzione del giardino di qualche scuola…

Ma vi confido che so per certo dove sia ora Huckleberry Finn.
Lui corre felice nei cuori di chiunque ami la libertà più di sé stesso, perché c’è qualcosa di peggio dell’essere abbandonati ed essere considerati rejetti o indesiderabili ed è perdere la propria libertà.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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