Yan Pei-Ming a Villa Medici

Yan Pei-Ming

Yan Pei-Ming. L’astrazione contiene la figurazione. Egli non parte dalla figurazione per poi immettervi una certa astrazione della figura, ma fa dell’astrazione, condotta con velocità di movimento, il campo dove arrivare a porgere la scena figurativa. Egli sostituisce alla stabile rappresentazione dell’uomo del Rinascimento e del Barocco, la presentazione dalla fragilità dell’individuo contemporaneo. Le sue tele enormi non sono monolitiche e distanti, ma intime, poiché vivono nella loro composizione la medesima fragilità di un individuo.

L’immagine Rinascimentale o Barocca tende alla perfezione nell’impianto e la resa degli elementi dipinti. Qui lo schema è rovesciato (e lo è anche rispetto alla Pop-Art per cui la figura è il solo oggetto dell’opera) poiché una figura preesistente, per esempio il papa di Velasquez presente al Palazzo Doria Pamphilj, può rivivere in diverse modulazioni pittoriche. La figura è la stessa in ogni dipinto, ma è dipinta in modo ogni volta diverso e sufficiente ad assolvere al compito della figurazione. Queste variazioni sono tutte egualmente esaustive della figura. Quello che lo spettatore sta guardando è come la pittura, mossa in azione rapida, porti alla conferma di un’immagine. L’astrazione dell’azione pittorica si fa immagine. Questa palese o possibile moltiplicazione, teoricamente, infinita di una stessa immagine, la rende inconsistente e fragile come lo è ogni individuo. Quindi la scena dipinta, che sia l’immagine di un altro quadro, o una scena politica o di cronaca, arriva allo spettatore nella sua fragilità, trasmessa attraversa l’astrazione dell’azione pittorica, e questo ne rafforza il significato emozionale, come se qualcosa di già radicato in noi si risvegliasse rimanendo parte di noi che guardiamo.

Il quadro che non possiede repliche (di cui il pittore non ha ridipinto la scena) possiede la stessa forza. L’astrazione della velocità pittorica che lo guida è una tra le tante non dipinte, e, l’immagine della scena, con le sue figure, vive di questa frammentazione, e quindi acquisisce e dipende da un’incertezza e una fragilità che compone il quadro come compone un qualsiasi individuo.

L’esposizione di Villa Medici a Roma è composta come un’elegia nella quale domina il bianco e nero, a volte trapunto di pochi colori, giallo o rosa, o rovesciato dal peso rosso del papa morto. Un’elegia che al suo centro subisce un’elevazione salendo le scale dove stanno i quattro quadri del papa di Velasquez ognuno con una diversa dominante coloristica. In cima finisce con due enormi quadri di tonalità blu scura in cui l’immagine, ossia la figurazione, appare meno visibile a un primo sguardo, e per questo è come creata o suscitata nella velocità dell’ampio movimento pittorico, come inventata da quell’astrazione. È lo strepitoso culmine che ridà allo spettatore la giusta natura della formazione di un’immagine, ossia che essa nasce dall’astrazione così come la vita (e la sua realtà) dall’ignoto. L’apparizione per quanto reale continua ad essere e a vivere sotto il peso di questa condizione, che è, da essa, ineliminabile.

Poco prima, subito dopo la scala, la saletta con tre tele quadrate dai toni blu scuro dedicate alle rovine romane. Il dipinto sulla destra sembra sfuggire a questa rappresentazione, forse cinese; alti e poveri palazzi ai due lati e una via desolata al centro, è notte, e due figure di cani o di lupi in primo piano, piccole, al centro in basso; si crea in questi paesaggi la poeticità della presenza, che chi sia in effetti, visibile, o che sia solo probabile, o che sia assente: essa sempre c’è, vaga per quei luoghi, risaputi e sfuggenti al contempo. Citazione seicentesca dei Capricci di paesaggio, ma con un umore ben meno consolante.

Comincia l’elegia con una splendida prima sala. I due dipinti, qui in bianco e nero, di Caravaggio, ripresi da San Luigi dei Francesi, messi uno di fronte all’altro come nella cappella Contarelli. Ma qui non c’è né la solidità di Dio, né la perfezione dell’idea concettuale dell’artista, né, infine, l’elaborata architettura che dietro regge i dipinti. Qui siamo in una grande sala bianca, indifferente alle leggi, che pone i dipinti in un bianco sterile. E i dipinti, liberati, rispondono alla sola presenza ormai esistente, al passaggio umano, alla fragilità di struttura e pensiero che stanno in un individuo, che si fa spettatore, e che, per forza di questi dipinti, ridiventa l’individuo che è, colmo della sua natura; e studiando i quadri, scopre l’incertezza di sé.

 

 

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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