Shifting Boundaries. Alla ricerca di una identità europea

Jakob Ganslmeier, Lovely Planet : Pologne, 2015 Untitled c-prints on Fuji Crystal archive paper 20 x 24 cm Courtesy of the artist

L’European Photo Exhibition Award, progetto co-organizzato da quattro istituzioni europee come la Fondazione Banca del Monte di Lucca (Italia), la Fondation Calouste Gubelkian (Francia), l’Institusjonen Fritt Ord (Norvegia) e il Kober-Stiftung (Germania), per la sua terza edizione, presenta presso la sede della Fondation Calouste Gubelkian di Parigi la prima tappa dell’esposizione di dodici giovani artisti europei invitati dai curatori Rune Eraker, Sérgio Mah, Enrico Stefanelli e Ingo Taubhorn, a riflettere sul tema Shifting Boundaries. Landscape of Ideals and Realities in Europe. Successivamente, tra il 2016 e il 2017, i lavori verranno esposti in diversi spazi tra Oslo, Lucca e Amburgo.

È più che mai necessario in un momento storico in cui assistiamo in seno alla comunità europea a grandi cambiamenti sociali, pensiamo a l’impatto della globalizzazione sulla popolazione, oppure alla crisi economica e politica, sia dell’Unione che dei singoli stati che la compongono, o ancora alla situazione drammatica dei movimenti migratori via via più imponenti verso il nostro continente a cui non si riesce a rispondere con buone pratiche unitarie di accoglienza, trovare momenti per riflettere su come tutti questi fatti stiano impattando sulla nostra cultura e sulla nostra società. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, specialmente dopo aver assistito in questi giorni al risultato del referendum britannico che ha sancito la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione europea: un sempre più crescente nazionalismo e una sempre più profonda frammentazione culturale stanno spingendo sempre più verso la divisione dei paesi piuttosto che verso l’unità.

Ben al di là del semplice aspetto geografico, i giovani artisti, di diverse età e nazionalità, hanno proposto per immagini la loro visione sulle frontiere dove si manifestano, forse in modo più significativo ed evidente, i cambiamenti in atto. Esemplare è il lavoro di Arianna Arcara (Italia, 1984) che con le sue fotografie ci presenta le barriere di Nicosia, attualmente l’unica capitale al mondo divisa da un confine tra la Repubblica di Cipro a sud e la Repubblica Turca di Cipro a nord. La desolazione dell’immagine offre una visione immediata sulla drammaticità della separazione tra rapporti di vicinanza. Pierfrancesco Celada (Italia, 1979) invece indaga le conseguenze del fenomeno di espansione delle grandi città. Sceglie la periferia milanese, area metropolitana tra le più popolate ed industrializzate d’Europa, mettendone in evidenza le trasformazioni urbane quotidiane come sintomo di una crescente globalizzazione culturale ed economica.

In modo completamente differente le immagini Marthe Aune Eriksen (Norvegia, 1975) riflettono sulla stessa tematica: le differenza tra centro e periferia. Ma le sue foto, prive di una connotazione figurativa, sembrano affrontare il problema della separazione sotto un aspetto puramente psicologico e concettuale. Jackob Ganslmeier (Germania, 1990) sceglie l’ironia ed il paradosso. La contraddizione tutta polacca, terra in cui convivono magnificenze e rovine, paese al centro dell’Europa ma allo stesso tempo nazione periferica, è ben evidente dal contrasto tra la desolazione delle immagini e le gradevoli didascalie, estratte dalla guida turistica Lovely Planet, ad esse affiancate. Concettuale è invece la riflessione di Margarida Gouveia (Portogallo, 1977). Le sue opere ci conducono in uno spazio ibrido tra virtuale e reale, simbolo di una società in rapido cambiamento grazie alla digitalizzazione. Qui i confini si sciolgono cambiando la percezione dei nostri stessi corpi e delle nostre identità. Ancora il corpo è protagonista nel lavoro di Marie Haide (Danimarca 1987). La fotografa presenta una realtà molto dura: un reportage sulla vita quotidiana di un gruppo di ragazze anoressiche e bulimiche.

Crisi di identità, confini psicologici e malessere di giovani generazioni in costante rapporto conflittuale con l’immagine del corpo perfetto che ci perviene dai mezzi di comunicazione di massa. Un po’ fuori registro dal resto delle opere in mostra, Dominic Hagwood (Regno Unito, 1980) esplora l’espansione dei territori della percezione della mente sotto l’influsso di sostanze psicotrope. Il confine qui è solo di senso, mentre reale e drammatica è la presentazione degli effetti della guerra in Ucraina che passa per gli scatti di Robin Hinsch (Germania, 1987). Un paese ancora diviso tra l’occidente e la Russia che fatica a trovare una propria identità. Una frattura che emerge in modo evidente nelle foto del giovane tedesco.

Tema sempre caldo è quello presentato da Eivind H. Natvig (Norvegia, 1978). Attraversare un confine per i profughi palestinesi fuggiti prima in Iraq, dove non godevano di alcun diritto, e poi in Norvegia a seguito della distruzione dei lori villaggi da parte degli Israeliani nel ‘48, non è una questione filosofica ma semplicemente — e tragicamente—  una questione di vita o di morte. Osserviamo in fotografia i volti dei discendenti di quei rifugiati sovrapposti ai resti dei territori lasciati dai propri antenati a sottolineare che il legame con la propria terra d’origine è un sentimento forte e comune a tutto il genere umano senza distinzione. Ildikó Peter (Ungheria, 1982) presenta uno studio sulla scellerata decisione del governo ungherese presa nell’agosto del 2015 di costruire una barriera di filo spinato di ben 170 chilometri al confine con la Serbia per arginare la migrazione sempre più crescente nella rotta balcanica. Le immagini sono evidenti e senza bisogno di spiegazioni: assistiamo alla nascita di nuove “cortine di ferro” nel cuore dell’Europa. Netta e chiara è l’accusa: il diritto alla libera circolazione acquisito negli ultimi anni dai cittadini europei grazie al trattato di Schengen è oggi seriamente minacciato da politiche miopi. Altri confini, in questo caso tra luoghi passati e tempi futuri, sono quelli indagati da Marie Sommer (Francia, 1984). Nel suo viaggio attraverso i paesi della ex-Jugoslavia scopre architetture abbandonate al limite della dimenticanza. Tra esse la biblioteca della città natale di Tito. Qui, con i molti libri abbandonati, crea una installazione la cui immagine poi viene sovrapposta alle immagini dei luoghi visitati.

Un tentativo di ricerca di dialogo tra passato e presente tramite il libro, da sempre simbolo di cultura e di legame in contrapposizione alla divisione. Chiude l’esposizione l’installazione The Boys Are Back di Christina Werner (Austria, 1976). Una riflessione puntuale sulla deriva populista e sulla violenza — specialmente verbale  — dei partiti di estrema destra che stanno sempre più prendendo consenso in molti paesi dell’Unione Europea. La ripetizione seriale di messaggi di propaganda diventa simbolo della ciclica ripetizione della storia e monito per lo spettatore che viene così sollecitato a riflettere sulla fragilità dei nostri sistemi democratici.

Info

  • Shifting Boundaries. Landscape of Ideals and Realities in Europe.
  • Fondation Calouste Gubelkian, Parigi
  • fino al 28 Agosto 2016
  • http://www.gulbenkian-paris.org
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Massimo Rosa è curatore d’arte ed ha diretto alcune gallerie italiane. Ama l’arte contemporanea e la filosofia. Attualmente vive a Parigi.

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