L’arte è operazione di osmosi tra sé e il suo pubblico (e non solo…), parola di Valerio Rocco Orlando

In occasione del secondo Educational Day indetto dall’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea italiani_ AMACI e a cura dei loro dipartimenti educativi, è stato presentato il progetto OSMOSIS ideato dall’artista Valerio Rocco Orlando.  Si tratta di un progetto unico nel suo genere, che coinvolge ben 25 musei di tutta la penisola nell’ideazione di un’opera di natura partecipativa che trova la sua realizzazione nel concreto coinvolgimento del pubblico dei musei e in un apporto individuale che ogni fruitore porta all’opera stessa, determinando ogni volta un risultato nuovo, originale e inaspettato.

Il mio incontro con Valerio Rocco Orlando avviene a distanza di qualche mese dalla presentazione del progetto, in un momento in cui si possono raccogliere i primi effettivi risultati del suo operato e avviene al Museo Macro di Roma, in occasione del premio che riceve da parte dell’Associazione VAF, promotrice ogni anni di un concorso (con relativa mostra di artisti selezionati) per premiare la ricerca artista più interessante del panorama italiano degli under 40. L’opera per la quale viene premiato Rocco Orlando è Niendorf, The Damaged Piano e, come molte altre opere dell’artista – di formazione non prettamente accademica, ma con un percorso di studi più vicino al teatro e al cinema – possono sembrare lontane nella metodologia e nella realizzazione da un progetto come quello di OSMOSIS.

In realtà nei lavori dell’artista scorrono intenzioni e desideri costanti che disegnano un fil rouge sotterraneo che, anche nell’eterogeneità dei media e dei linguaggi adottati, mantengono e arricchiscono una ricerca artistica valida ed originale.

Uno dei punti fermi di questa ricerca è il desiderio costante nel “confrontarsi con il pubblico dell’arte contemporanea, in quanto effettivo fruitore dell’opera.”. Qui si trova anche il punto di partenza del progetto OSMOSIS.

Da dove nasce l’idea di un progetto di questo tipo? Come si collega al genere di ricerca artistica che porti avanti?

“Il progetto OSMOSIS nasce per essere sviluppato insieme e all’interno di strutture istituzionali quali sono i musei, questo presupposto si unisce a una consapevolezza ben precisa e da tempo presente nel mio lavoro: da una parte un desiderio personale nel creare un rapporto diretto con il pubblico dell’arte contemporanea, secondo dinamiche diverse da quanto possa accadere in ambienti come le gallerie o le fiere; dall’altro riconosco il museo come luogo che rappresenta il patrimonio collettivo per il quale l’artista ha il dovere di rivendicare la responsabilità in quanto luogo d’incontro e di dialogo dell’intera collettività, non solo di quella fetta partecipante al Sistema Arte.

Oggi pochi musei riescono ad avere una politica definita e un programma prettamente culturale che li permetta un rapporto radicato con il loro territorio, riuscendo a instaurare un rapporto con il loro pubblico innanzitutto qualitativo, non prettamente quantitativo.”

Sono d’accordo, i musei oggi dovrebbero riuscire a fare proprio questo: andare al di là della loro funzione di tutela e conservazione, riconoscersi come promotori di nuovi saperi e partecipi della comunità della quale fanno parte. Secondo te un artista con il suo lavoro, e dall’interno delle istituzioni, può partecipare attivamente a questo cambiamento?

“Uno dei fini ultimi della mia ricerca è quello di stimolare una cittadinanza attiva.

Di fatto tutto il mio lavoro può leggersi come un percorso di formazione, o meglio, come un processo di AUTOANALISI E CONDIVISIONE, nel quale c’è interesse innanzitutto a stimolare delle domande che riguardano direttamente lo spazio dove si agisce. Qui si trova la consapevolezza che guida la mia ricerca: essere un artista che lavora nel tessuto sociale in cui vive e, anche se finora ho girato molto e lavorato al di fuori del mio paese, adesso mi sto concentrando maggiormente su questo territorio specifico.”

Come ti sei relazionato con i dipartimenti educativi coinvolti nel progetto?

“A me interessa provare ad utilizzare il museo come una palestra di scambio e in quest’ottica, il dipartimento educativo risulta il motore della mia ricerca, il primo interlocutore valido che il pubblico trova. Gli operatori e i direttori del dipartimento educazione, infatti, sono coloro che hanno quotidianamente un rapporto diretto con la cittadinanza, che devono saper modulare, adattare e arricchire di volta in volta.

Quando il consiglio direttivo di AMACI – nelle persone di Ludovico Pratesi e Valerio Dehò- mi ha chiesto un progetto che mettesse in relazione tutti i dipartimenti educativi dei musei coinvolti, invece di dare istruzioni per un’attività pratica da svolgere in questi diversi luoghi, ho avuto innanzitutto l’esigenza di conoscere personalmente i distinti territori e i vari interlocutori. Sono quindi partito per un viaggio che mi ha portato da Merano, Bolzano fino a Matera, passando per le regioni centrali, per visitare e dialogare con tutti questi dipartimenti.”

Che genere di lavoro si instaurava esattamente nei diversi dipartimenti?

“In ogni museo, si creava come un laboratorio di idee della durata di un giorno, nella quale incontravo non solo i mediatori e gli operatori didattici, ma anche i direttori di museo, i curatori, il personale di sala… a fare da guida e da apripista, però, era sempre il dipartimento educativo. Questa è una cosa nuova e diversa dal solito processo che un artista mette in atto; di solito l’artista lavora con i curatori o direttori del museo, solo in un secondo momento (e non sempre) entra in relazione con il dipartimento educazione.  In questo caso era mia intenzione capovolgere la macchina: ridistribuire i ruoli e, per questo, i curatori e direttori museali hanno partecipato all’elaborazione del progetto ma spogliati delle loro abituali funzioni, come semplici interlocutori all’interno del proprio museo e, a partire dalla loro esperienza personale, sono entrati alla pari nel discorso che si delineava.

Questo scarto che si è venuto a compiere è il vero statement del mio lavoro, quasi un’affermazione politica, nel quale si pone al centro di tutto il lavoro la funzione sociale del museo, il suo ruolo attivo all’interno della città e comunità.”

Quali risultati si sono ottenuti e, da questa nuova prospettiva, come ci si è trovati a relazionarsi con il pubblico?

“Come forse si sarà compreso, questo progetto mirava maggiormente a indagare dinamiche presenti nelle istituzioni museali, a tirare fuori delle domande, diverse per ognuno di questi territori, piuttosto che raggiungere delle conclusioni definitive.

Io sono arrivato in ogni museo portando con me una tavola e durante ogni brainstorming che si organizzava con i vari personaggi dell’istituzione coinvolta, si evidenziavano alcune domande, una per ogni museo, che venivano trascritte a mano sulla tavola dal rappresentate del dipartimento educativo. Tutte le domande raccolte si sono stratificate, non tanto portando alla creazione di questionario, ma piuttosto creando un tessuto vivo di esigenze diverse e urgenze particolari. In questo modo si è realizzato anche un lavoro di negoziazione dei ruoli, riportando tutta la questione intorno al quesito qual è a mia responsabilità? rispetto agli artisti, agli educatori ai curatori e anche quella del pubblico.

Successivamente ogni dipartimento ha scelto anche la domanda formulata da un altro museo, attivando un’operazione di osmosi non solo tra il museo e il pubblico, ma anche tra i differenti (e distanti) musei del territorio italiano. Ogni dipartimento educativo ha poi “attivato” la propria domanda attraverso dei laboratori pratici.”

Viene spontaneo portare la riflessione sul compito dell’artista che va cambiando…; quale diventa il suo nuovo ruolo?

“Il processo di creazione subisce un’inversione: non è l’artista a creare e condurre un’attività insieme al dipartimento, riproponendola ad ogni occasioni possibile, ma si parte dalle esigenze di ogni singolo dipartimento educativo per costruire un palinsesto nel quale ognuno di questi dipartimenti mette al centro il proprio punto di forza, partendo dalle caratteristiche che lo contraddistinguono. In questo modo escono fuori le loro singole identità, ben distinte tra loro, con storie e percorsi diversi. In quanto artista, io ho instaurato un rapporto di fiducia unico con ognuno e per farlo adottavo precisi strumenti, gli stessi che utilizzo quando mi trovo a lavorare con comunità diverse: l’ascolto attivo, l’auto-osservazione, l’immedesimazione, l’identificazione delle urgenze e la gestione dei processi di mediazione.

La fiducia che nasce, stimolata dalla conoscenza reciproca con l’interlocutore, tende a far sparire l’artista: egli è presente, ma di fatto tende ad annullarsi in un processo di osmosi all’interno del  progetto; l’artista diventa uno dei partecipanti coinvolti.”

In questi processi artistici, l’estetica e l’attrazione puramente visiva o emotiva di un’opera d’arte sopravvive? Quanta importanza resta su quest’aspetto dell’arte?

“Io credo fortemente nella componente estetica dell’opera d’arte, cioè quanto la sintesi formale di questo processo rimanga responsabilità dell’artista singolo. Penso che il processo sia tanto importante quanto l’aspetto formale del lavoro, perché, chi non avrà potuto partecipare direttamente alla realizzazione del processo, dovrà coglierne comunque il significato, il messaggio. In questo caso, le risposte che stanno venendo fuori dalle attività condotte dai dipartimenti, stanno intessendo dei dialoghi tra chi le ha create, ma resteranno anche discorsi aperti ai quali potranno prendere parte o, anche solo, essere recepiti da chi verrà successivamente.

Saranno, quindi, come opere aperte pronte a coinvolgere nuovi interlocutori e nelle quali l’artista avrà sempre responsabilità della formalizzazione e selezione, facendo delle scelte dal proprio punto di vista, ma anche considerando una riflessione collettiva. È come una fisarmonica, un gesto per aprire e uno per chiudere, la partecipazione si muove in questi ingranaggi senza mai arrivare a far sentire i partecipanti strumentalizzati dal processo e neanche l’artista dovrà giungere ad esserlo dalle istituzioni o dalle dinamiche territoriali con le quali si trova a collaborare.”

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Francesca Campli ha una laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio artistico e una specialistica in Arte Contemporanea con una tesi sul rapporto tra disegno e video. La sua predilizione per linguaggi artistici contemporanei abbatte i confini tra le diverse discipline, portando avanti ricerche che si legano ogni volta a precisi territori e situazioni. La passione per la comunicazione e per il continuo confronto si traducono nelle eterogenee attività che pratica, spaziando dal ruolo di critica e curatrice e quello di educatrice e mediatrice d'arte, spinta dal desiderio di avviare sinergie e confrontarsi con pubblici sempre diversi.

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