Letterature Festival # 2. La Callas del mondo arabo di Suad Amiry. Le grandi piramidi di Andrew Sean Green. La memoria della morte di Simonetta Agnello Hornby

Andrew Sean Green

Una serata di fine giugno, con una incipiente estate calda, tra le mura ancora umide delle rovine della Basilica di Massenzio, ho lasciato che abbuiasse il naturale cielo turchese fino a diventare azzurro artificiale sulle tre volte del palcoscenico del Festival delle Letterature. In contemplazione! Guardavo incantato in alto i contrafforti che spingevano la mastodontica struttura sovrastante e mi ritornava alla memoria il ruolo originario di quel luogo così importante (attività giudiziaria) per un altro periodo (IV secolo d.C.), per altre genti (Massenzio e Costantino).

Tutto intorno il Foro silenzioso, con alcune evidenze come colonne, archi, templi, e chiese illuminate sui quali svettavano nel buio in controluce i triangoli dei campanili. Gli spettatori avevano il gran privilegio di assistere ad uno spettacolo come in un teatro di Roma Antica, come in una cavea di cui la Basilica fosse il palcoscenico. Il buio, e poi sotto lo schermo sfuocato, le ombre dei tre musicisti a farci provare dopo il senso visivo  quello acustico. Una incredibile cascata di suoni originali creati dal pianoforte di Andrea Pesce, rafforzati dall’elettronica live di Riccardo Sinigallia,  accompagnati dalle percussioni di Cristiano De Fabritiis ci hanno dilatato letteralmente le percezioni come un buon aperitivo prima di una buona cena.

Intanto comparivano le copertine dei libri di Suad Amiry nata a Damasco da genitori palestinesi nel 1951. Cresciuta tra Siria, Egitto e Libano ha studiato architettura tra Stati Uniti ed Edimburgo. In Palestina dal 1981  insegna architettura a Ramallah. Una donna intelligente che, per aiutare il suo popolo espropriato della propria terra ed abitazioni nel 1948 come proprietario assente, cacciatosi poi in un conflitto storico che dura da allora, ne ha dovuto scrivere, dal romanzo Sharon e mia suocera (2003) a Golda ha dormito qui (2013). Con grazia e humour ha cercato di far sapere al mondo la sofferenza dei palestinesi e soprattutto la verità sulla guerra palestino-ebraica.

Valentina Carnelutti ha letto un brano dal volume Damasco, ultima fatica di Suad Amiry (Feltrinelli 2016). Una storia sulla famiglia dell’autrice, in particolare sulla cugina Norma, una bambina di Gerusalemme adottata da una zia nubile Arimeh. Più una Carmen spagnola che una druida nordica. Più una Aida che ritorna a Gerusalemme dove era stata abbandonata. La signora cantante passionale che lei amava tanto e di cui finalmente è riuscita a scrivere la storia.

Suad Amiry con il suo forte fascino e carisma ed il suo profondo e pungente umorismo ci ha letto – per Stanze della Memoria (e non poteva descrivere spaccato più potente degli anni ‘50/60) – l’organizzazione di un evento in una casa araba di Mango Street a Damasco, un concerto della Callas del mondo arabo Umm Kulthum.

Quella madre esagitata che, con quella manifestazione, come Nasser univa  il mondo arabo il primo giovedì di ogni mese. Le due sorelle maggiori che dovevano correre a trovare nastri per registrare la voce per l’ennesima volta e poi stenografare le parole. Il fratello che si impegnava (malvolentieri) a chiamare a raccolta parenti (una cugina con dieci figli che però cucinava bene), amici, conoscenti e svogliati abitanti del quartiere. Con montagne di cibo, tè alla menta, caffè, tisane alle orchidee di montagna. Con il padre il diplomatico Mohamed chiamato al ruolo di barista, in una maratona di musica, balli e mangiate dalle tre alle cinque ore, intorno ad un mobile art decò (una radio),quasi solo donne alla fine, a tratti in standing ovation, con i cuscini ed i divani in circolo come in un circo minimo.
Immaginare la cantante agghindata con tutti i gioielli sui colorati conturbanti vestiti arabi, circondata dai 27 musicisti di cui 8 ormai conosciuti per nome. Le canzoni imparate a memoria sia nelle parole sia nelle rime, e tutti pronti a cadere in trance con gli occhi chiusi, in pianti e lamenti. E cibo per l’anima e per la carne, insieme. Unificati, libanesi, curdi, siriani, giordani, ma anche cinesi, inglesi e di altre razze e religioni come in una New York cosmopolita, con la scimmietta di casa a saltare qua e là ed il pappagallo a ripetere grazie, grazie. Poi sull’applauso è arrivata la musica quella bella musica ad aprire sensazioni: una grande mise-en-scène!!!

Valentina Carnelutti, attrice con due nomination ai Nastri d’Argento ha poi letto un brano da Le vite impossibili di Greta Wells di Andrew Sean Green con l’intensità di un recital di teatro di alto profilo. Brano su una dissociazione mentale o difficoltà di identificazione con il relativo trattamento psichiatrico ed i suoi effetti collaterali che si dilatano in tre epoche diverse. Poi il giovane autore americano ha raccontato di un’America che ormai, con il cambio dei gusti cinematografici (solo effetti speciali), non riusciamo più  a conoscere. Il suo inedito Le grandi Piramidi narra la storia di suo padre, un mormone morto ad appena 45 anni che, con il miraggio di raggiungere appunto l’apice della piramide con piccole invenzioni (self made man) a cominciare dalla Pluto Water (pozione miracolosa), sacrificava la famiglia alla povertà. Piccolo imbonitore di provincia pronto sempre a vendere pillole di alghe o bistecche di struzzo. In viaggio per l’America in perenne fuga dai creditori fingendo di cercare sempre una casa più bella.
Brillante ed umoristico il viaggio da ragazzo lungo tutto l’Idaho con la sorella maggiore Jessie a vendere sandali riempiti di noduli massaggianti a bordo di un pulmino Wolkswagen con soste presso parenti e amici e grandi fumate di erba. Finendo con il diario intimo del padre nel ricordo di tutte le sue donne tra cui la madre, la prima volta e due anni prima di morire quando ormai erano separati da tempo. –  Ma così  è l’amore  –  Ha concluso Green e con un mandolino ci ha sorpreso a cantare Roma nun fa la stupida stasera stile american country.

L’ultima Stanza della Memoria era italiana anzi siciliana. La morte come la conosciamo bene in Sicilia con le prefiche pagate per piangere. L’avvocato Simonetta Agnello Hornby ha sfoderato tutta la sua conoscenza storica dell’argomento. La memoria della morte. A cominciare dalla nonna Maria che, ha detto, ha accompagnato con la sua presenza assenza dopo la morte, avvenuta quando era bambina, tutta la sua vita e quella della sua famiglia.

Il lutto in Sicilia variava da città a città – racconta Agnello Hornby – da grado a grado. Diversa per le donne e per gli uomini. Personalizzata. Le fotografie del defunto rimanevano ovunque. Di più se era stato buono o importante. I primi giorni non si cucinava, i parenti mandavano buon cibo preparato. Si parlava molto bene del defunto, poi pian piano meno bene fino a parlarne anche male, malissimo. Una sottile ironia pervadeva il racconto della scrittrice. Si andava spesso al cimitero a parlare. Poi all’ossario a visitare anche gli altri defunti. Ma poi si finiva al ristorante come nelle migliori tradizioni islamiche, dove i luoghi per mangiare si trovano anche vicino alle tombe.

A 5 anni già scrivevo il mio testamento e dissero che avrei fatto l’avvocato, a 12 anni imparai tutte le storie del teatro del lutto che ho riportato poi nella Mennulara mio primo romanzo, perché la morte va detta – ha continuato la Agnello Hornby. La morte ritorna nelle rappresentazioni dei pupi siciliani. Nella finzione, nelle mimesi dei cuntastorie che sono il teatro ed il cinema siciliano. Ci sono la spada, l’agonia, la commozione, la vita sospesa, il voyerismo del dolore, la memoria della morte. Il richiamo ai cicli cavallereschi con i sacrifici eroici sotto le spade dei cristiani e degli islamici. Ed ancora il richiamo della morte nel melodramma, dal Don Carlos all’Andrea Chènier, dall’Aida alla Carmen, dalla Mimì alla Manon alla Tosca.

Una chiusura musicale doc alla Basilica di Massenzio per le Stanze della Memoria.

 

 

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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