Un certo Julio. Cortàzar, Bolaňo e Gifuni. Ovvero di visioni e realtà.

Gifuni , Cortazar

Caratteristica di un spettacolo teatrale riuscito è sospendere il tempo e il luogo, tracciare i contorni e le ombre mutevoli di uno spazio, di un tempo e di un agire e aiutarci a osservarli, comprenderli, sentircene anche, spesso, partecipi.

Ma quale può essere l’aggettivo appropriato per tentare di descrivere ciò che avviene quando si viene presi per la collottola e trascinati dentro a un altrove dove tutto sembra essere uguale eppure saltano i connotati di ciò che noi consideriamo normale, in modo tale che non siamo neanche in condizione di rendercene conto?

Questo è quello che succede quando si viene sorpresi dai racconti di Un certo Julio, omaggio a Julio Cortàzar – caposaldo della letteratura ispanoamericana – nei quali alle sue parole si interpolano quelle di un’altra penna celeberrima, che di Cortàzar si riconosce profondo debitore: Roberto Bolaňo.

A farsi Caronte del viaggio, in scena al Teatro Franco Parenti, è Fabrizio Gifuni, che di scrittori e mondi si è fatto diffusamente voce, negli ultimi anni. Da Gadda, a Pasolini, a Testori.

A Cortàzar delle sue note potenzialità da attore mette a disposizione soltanto quell’accento strascicato e cantilenante, che tutti abbiamo in mente e che subito richiama il Sudamerica genericamente e l’Argentina in particolare, a chiunque vi si imbatta anche solo per errore. Un espediente che non può che strappare un sorriso divertito. Diventato così irriconoscibile e ingabbiato, in piedi, dietro un ingombrante leggio, si può correre il rischio di supporre che stia incarnando una sorta di macchietta, oppure che questa scelta di rappresentazione sia persino troppo scarna per qualsiasi attore, anche chi abbia fatto della capacità di polarizzare l’attenzione su di sé e di fornire tridimensionalità  alle parole anche col solo pronunciarle, un cavallo di battaglia. Caratteristiche, queste ultime, di cui Fabrizio Gifuni gode a piene mani.
Il peggiore degli errori nei quali si può incorrere, tuttavia, è quello di credere che la scelta di mettere in scena alcuni tra i brevissimi e sorprendenti racconti – talvolta veri e propri epigrammi – tratti da Un certo Lucas sia un semplice, felice, divertissimènt. Errore facile da commettere, mentre ci si lascia trasportare dalle apparentemente piccole vicende di Lucas, dai drammi quotidiani alle riflessioni esistenziali, dai moti dei suoi intestini fino alle idiosincrasie che assumono forme di mostri mitologici. Errore aiutato anche da quella salace ironia che è degli scrittori sudamericani e di cui Cortàzar fa una cifra  precisa, così come dai discorsi a braccio dello stesso Gifuni, che questo stile appare sentirlo proprio e farne uso agevolmente anche fuori dal personaggio. Se però il lavoro dell’attore romano raggiunge l’obbiettivo che si è prefisso, e spinge a  immergersi nel volume intero, ecco che appare in tutta la sua forza ciò che questi racconti e la loro accurata interpretazione fanno però ben percepire.

Cortàzar chiede dei lettori – e quindi degli ascoltatori – con delle caratteristiche precise. Creativi, senza dubbio. Capaci di non incasellare ciò che gli viene raccontato in una forma di logica stringente, supponendo che da un punto A si debba arrivare necessariamente a un punto B, anche perchè laddove accada, verosimilmente non è quello che ci si aspetta. (Proprio in questa ottica, ad esempio un oggetto che appare fondamentale per un’intero racconto si scopre essere in realtà solo un funzionale fastidio). Visionari abbastanza da comprendere le mutevoli trasfigurazioni di un pensiero in immagini prestate dalla letteratura, da entrare agevolmente in un mondo in cui riconosciamo la Francia e l’Argentina dove ciascuno di noi, come Lucas, cammina, eppure dove quelle strade di Marsiglia, Parigi, Buenos Aires, diventano una sorta di mondo parallelo dove in mezzo alla quotidianità si sciolgono le briglie dei pensieri. E razionali. Perché solo con la razionalità si possono cogliere i messaggi che questa prosa autodivertita lancia, talvolta fulminanti talvolta persino brutali. Su ciò che siamo e ciò che crediamo di essere.

Cortàzar azzarda. Perché esiste come scrittore proprio azzardando qualcosa così alla portata e insieme così esclusivamente suo, che vuole essere – come ebbe a scrivere in quella stessa raccolta  il «riassunto provvisorio della dinamica umana». Nelle parole che Gifuni porge al pubblico «Il tempo è un gemito. Si produce a catena una fissione nella crosta del reale. Tutto sta scivolando verso qualcos’altro, gioca un altro gioco e riduce in cenere i dizionari».

A fare da guida, sapientemente interpolate, le parole di Bolaňo, che se da un lato sembrano echeggiare lo stile dei racconti dello scrittore argentino, e ne segnalano lucidamente paternità e distanze dalla propria opera, ne offrono anche la chiave di lettura. Progressiva eppure inesorabile, nella nostra contemporaneità ma forse non soltanto, senza bisogno di andare a cercare il luogo dove si gettano le spiegazioni.
«Tutto ciò che inizia in commedia finisce in tragedia» poi «tutto ciò che inizia in commedia finisce in tragicommedia» ma infine «tutto ciò che inizia in commedia finisce, inevitabilmente, in commedia».

 

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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