Letterature Festival 5#. …E continuo a scornarmi con il vento

Inventare la memoria: inventare qualcosa che non c’era prima ma che ha a che fare con il passato, con gli dei e con qualcosa che non si vede, non si sente, ma che è fatto di tutto ciò che chiamiamo vita.

I greci sapevano che la Memoria era la madre delle Muse, divinità a presidio e tutela della creazione della mente umana. E noi accettiamo il fatto senza battere ciglio, perché “è così”, senza chiederci che diavolo c’entrino le arti con la memoria. Che relazione ci sia tra Cervantes, Shakespeare e la memoria. Perché le arti e la poesia sono memorabili, forse? Certamente: ma allora come la mettiamo col fatto che la poesia possa essere qualcosa che la memoria, prima che fondarla attraverso le opere, la inventa? E a cui, quindi, attinge, prima di poterla donare al mondo?

Diceva Roberto Calasso, ne La letteratura e gli dei, che le parole poetiche sono il luogo in cui gli dei sono andati a rifugiarsi una volta andati via da quel tristo luogo che è il mondo degli uomini. I poeti – ricordo appena che il verbo ποιέω (poièo) significa creare, costruire ex novo -,  quindi sono le uniche figure capaci di ascoltare gli dei, di immergersi nell’infinito caos, plasmarne le scintille e creare, con le parole, quello che prima non c’era, e che dà a noi la sensazione di esser parte di una storia, di poterci ricordare come eravamo quando stavamo con gli dei.

La serata di Letterature che si offre allo spettatore è dedicata agli inventori di memorie: Miguel de Cervantes e William Shakespeare (con uno speciale ringraziamento all’Istituto Cervantes e al British Council). La loro presenza si manifesta attraverso quel potente strumento della memoria che è l’evocazione: sullo schermo scorrono sequenze dalle più grandi trasposizioni cinematografiche del Don Chisciotte  e del teatro di Shakespeare; una grande artista come H.E.R. rivisita, con il suo violino elettrico ed una voce che si imprime nell’anima, musiche e parole  (di Marlene Kuntz, Francesco Guccini, Elvis Costello) ispirate ai personaggi dei nostri autori; una piccola schiera di poetesse e poeti reinterpreta quella poesia attraverso un bellissimo gioco di specchi: ognuno affianca al passo scelto di uno dei due inventori la propria intima memoria poetica, una personale dichiarazione di discendenza e parentela.

È in questo clima che l’eredità di quella memoria inventata prende forma, ed è allora che la parola “inventore” si accende del suo significato profondo. Ascoltando Elio Pecora (ha una voce che è una carezza), Domenico Adriano, Nicola Bultrini, Claudio Damiani, Antonio Riccardi, Gabriella Sica, Silvia Bre, Franco Buffoni, Francesco Dalessandro leggere e reinterpretare (secondo una mirabile lettura che del Novecento ha dato Bàrberi-Squarotti) i due parentes; lasciandomi trasportare dalle voci di interpreti come Milena Vukotić e Vinicio Marchioni mentre leggono le “lettere da ridere” del pazzo savio a Sancho Panza, avvolta dalla voce di Barbara Romoli mentre legge, di Patrizia Cavalli, la traduzione shakespeariana  (Sogno di una notte di mezza estate, Otello), e, infine, scoprendo quant’è universale, trasposto nella Napoli secentesca di Eduardo, il monologo tratto dalla Tempesta letto da Salvatore Striano, mi ricordo anche io: mi ricordo che il verbo invenire significa “andar dentro qualcosa, trovarsi qualcosa sulla strada che si sta percorrendo”; ognuno degli aedi (sì, sì: loro) che stasera ha ammaliato il pubblico ha scritto perché è entrato da quella porta, e ha lasciato aperta una porta anche per noi. E, a loro volta, gli inventori di memorie che stasera si celebravano avevano percorso un cammino che, se fatto a ritroso ci porta dritti sul Parnaso, insieme ad Omero e agli dei.

Protagoniste assolute della serata, le parole. A cominciare da quelle di Valentino Zeichen, la cui memoria viene onorata da Elio Pecora che legge tre sue poesie. Man mano che il viaggio procede, quelle parole rivestono di sé le immagini, le musiche, e mi conducono per mano in quel luogo che solo esse sanno trovare e disegnare. E allora capisco che, davvero, solo un poeta può dire l’indicibile, solo un poeta può inventare un mondo, e che il mondo è la memoria anche di ciò che avremmo potuto, o voluto essere. La poesia ci consola perché ci regala un ubi consistam leggero e profondamente radicato al tempo stesso. La poesia stasera ci ha fatto incontrare (o inventare?) i nostri fantasmi, ha reso permeabili le nostre corazze, ci ha mostrato che possiamo sempre sognare la nostra Dulcinea, ha distillato la verità in versi (Shakespeare, Sonetto 54) rendendoci sopportabile il dolore che accompagna sempre ogni memoria (“Ma se, caro amico, in quel momento ti penso, la pena più non sento”, Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate), e dandoci, ancora una volta, la possibilità di guardarci allo specchio. Ecco cosa hanno inventato, i poeti. Hanno inventato noi.

Per concludere e ringraziare, un piccolo florilegio di citazioni, che dispongo a mo’ di testo

Mettere tutto sotto metafora[1] perché i giganti non hanno paura del dolore[2], dotati della loro armatura immortale[3]: sanno bene che l’illusione vale più della resa [4]; inventori di memorie, nati per vivere morendo[5].

Note

1.  Valentino Zeichen, La proprietà violata

2.  Nicola Bultrini, Noi giganti

3.  Claudio Damiani, Il fico sulla fortezza

4.  Elio Pecora, Inferni appropriati

5.  Gabriella Sica, Scrittarelli cervantini in versi

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Giulietta Stirati, docente di materie letterarie e latino in un Liceo romano. Appassionata da sempre alla lettura, ha fatto di questa attività, declinata nelle sue funzioni più ampie e profonde, il senso del proprio mestiere. Insegnare è insegnare a leggere il mondo, sé stessi, gli altri. Attraverso la trasmissione del sapere si educa a leggere, a scegliere che vita si vuole.

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