Cory Arcangel alla Lisson Gallery di Londra.

Vado a Londra per vedere un altro artista alla Lisson Gallery, ma visito più avanti la seconda sede dove si trovano le opere del giovane americano Cory Arcangel. Parlerò di lui perché dell’altro non posso svelare subito il complesso mistero dell’esperienza che mi ha provocato.

Esco dalla mostra e, sforzandomi di capirla, mi vengono in mente gli affreschi di Cristoforo da Bologna su Santa Maria Egiziaca alla Basilica di San Giacomo Maggiore a Bologna. Affiancamento straniante. La città di Londra, vasta, pulita e opulenta, con il suo carico di gente, sembra poter ignorare del tutto l’opera di Arcangel, e, in generale, l’Arte che si svolge nelle Gallerie d’Arte. Oggi l’Arte ha come interlocutore un’elite molto ristretta. All’altra mostra durante la mia permanenza non entra nessuno, qui da Arcangel entra una coppia agghindata come un cliché snob – sono ben assortiti con il finto populismo di Arcangel –, e lei ovviamente ha un’enorme cappello a tese larghe e morbide; fortunatamente sto uscendo.

Alla pittura del trecento si possono sostituire delle fotografie di grandi dimensioni alternate a dei video di uguali dimensioni (sono stretti e verticali, identici, affiancati alla medesima distanza gli uni dagli altri, in un assortimento senza ordine)? All’universalità della pittura (storicamente prolungata nel tempo) si pone l’attimo della foto e il movimento di attimi del video. La pittura ancora oggi sembra conservare in sé, nei casi migliori, una carica di invenzione, una soggettività per cui proviamo empatia. Fotografia e video sono meccanici e allontanano il visitatore dall’opera: possono mentire e raccontare una storia o documentare freddamente. La pittura racconta sempre la sua verità, dolce e umana, se a settecento anni Cristoforo mi commuove nel modo che ha di rendere l’acqua in movimenti stilizzati di linee o la vecchiezza della santa nei seni cadenti, piatti sul petto di lei, con i capelli lunghi a velare, ma fortemente, il corpo. La Chiesa è il luogo di tutti. La galleria è un luogo per pochissimi. I riquadri accostati degli affreschi medievali generano, forse, la sequenza di immagini di Arcangel, equidistanti sulla parete bianca, poco sopra il pavimento, di dimensioni identiche, alte e strette, che gira tre pareti in una sala, due in un’altra, divise da una fotografia della testa di un gatto che guarda spaurito di tre quarti verso l’alto – ecco sintetizzata l’umanità di oggi, costretta nel presente (e la Storia, che anche oggi esiste, appare ripresa o divisa in diversi presenti senza tradizione, e senza programmazione verso un futuro). Cory Arcangel manipolò l’hardware di un videogioco per console (Super Mario per Nintendo) facendo in modo che sullo schermo apparissero in lento scorrimento soltanto le nuvole nel cielo.

Fotografie incorniciate e video, visivamente, non mostrano istantaneamente la differenza di materia (tranne che per il movimento dei video): i due generi hanno la stessa matrice, la realtà com’è e i mezzi per riprodurla mantengono questa percezione. Cristoforo da Bologna inventa l’apparire della storia della Santa, che non è sua contemporanea, nel rispetto delle fonti (il tempo fortifica la pittura). Cory Arcangel riprende ciò che gli è contemporaneo, utilizzando una lontananza minore dai soggetti prescelti (le fotografie non sono scattate da lui, ma trovate su internet). Sembra che la “lontananza” che utilizza Arcangel sia il negativo della lontananza che utilizza Cristoforo da Bologna, perché ha il tempo del quotidiano che è contrapposto al tempo Storico degli affreschi.

E tanto attrae la pittura del trecento e anche quella del nostro pittore, tanto fanno ripulsa gli individui presenti nelle opere di Arcangel (le stampe digitali astratte che organizzano lo spettro dei colori distanziano in un non-luogo – cos’è il digitale? – lo spettatore. Il faccione pixellato visto frontalmente del cantante dark-pop Marilyn Manson, e il rapper Kanye West che mette la gamba fuori per uscire da un’automobile sotto la scritta The Most Stylish Man Alive: ci vuole coraggio a comprare una di queste due opere, come anche il video cortissimo, storto in verticale, di una pubblicità di un’automobile, che prima mostra il cruscotto e poi la fiancata, o ancora gli still ripresi in più schermi video che con un’applicazione del computer muovono in basso la stessa immagine riflessa in onde (sono una sfida per la ripetitività piatta, data a una qualsiasi durata di osservazione). La galleria sta lì per vendere o per mostrare? La situazione, oggi, in questo luogo, è ambigua rispetto alla chiara evidenza del ruolo degli affreschi del trecento nello spazio di una Basilica. Lo spettatore prima dell’eventuale acquisto, in effetti, è solo (solitario?) osservatore. Tutto si svolge in un onanismo concettuale. Cory Arcangel aggiunge qualcosa secondo me: lui ne è consapevole, e le opere commentano esattamente questo spazio vuoto, o di nessuno (nostro, di noi oggi, adesso; nuovo?), questo baratro inedito del Presente senza connessione diretta con la Storia, passata o futura. Ma qui la parola fondamentale è inedito, cioè presente come fatto mai accaduto prima. Il baratro del presente sarebbe una novità storica e sociale. Noi ci siamo dentro e lo abitiamo così come nel trecento il popolo abitava il proprio tempo con le sue caratteristiche e la sua Arte.

Ma Cory Arcangel conosce gli affreschi del trecento? In che modo? Cory Arcangel fa realmente della sua opera un commento del baratro del Presente essendone consapevole? Si dovrebbe chiederlo a lui. Ma l’artista può dare una risposta che dovrebbe essere l’opera a dare allo spettatore? Questa incertezza ambigua, o polivalenza dei ruoli, non nutre la comprensione del nostro presente? E questo presente è il nostro tempo?

Certo è che la fotografia o il video o un’immagine digitale stampata o in movimento limitante descrivono una lontananza e non una vicinanza, traducono una spinta in fuori (e non verso, come per gli affreschi), e i nostri piedi passano dal pavimento della galleria al vuoto più vero che regge la galleria. E il nostro cammino allora, non lo continuo, una volta uscito (e lo era anche prima di entrare), sorretto da quel vuoto, e questo non interroga l’incerta fisicità dell’adolescenza come fu in una precedente mostra di Cory Arcangel al GAMeC di Bergamo, dove l’individuo era classificato secondo i differenti gruppi creati dagli adolescenti secondo schemi di identità sociali, soffocanti e liberanti insieme? Ognuno era un “tubo galleggiante da piscina” messo in verticale, poggiato sul pavimento della grande stanza (affrescata!), appoggiato alla parete; erano decorati da braccialetti, o calzini, o cuffie, indossati dal tubo. Chi comprerebbe mai un tubo galleggiante da piscina con braccialetti, per esempio borchiati da metallaro? Eppure la mostra era attirante, non in foto ma dal vivo. Forse proprio per questa citazione corporea, minima, che però definisce (e rappresenta) meglio di altro la nostra identità di oggi, la nostra identità Presente.

Devo ammetterlo, quel gatto, adolescente anche lui, fotografato in quel modo e con quegli occhi spauriti traduceva la faticosa indifferenza di quel mondo, lontanissimo, caotico, (non più europeo ma comunque europeissimo) londinese.

Tra la santa e quel gatto, tra il suo Dio e il nulla quantistico senza tempo, esiste un ultimo rovesciamento: essa ha avuto un costo prima dell’esecuzione in affresco, senza la quale non sarebbe esistita, e la sua fruizione si può considerare gratis lì immobile nella Basilica, mentre “lui”, il gatto, come anche le altre opere di Arcangel, sono state prodotte (digitalmente) gratis, ma hanno un costo finale che le nasconde alla massa nelle case dei ricchi acquirenti. Questo processo speculare e ribaltato prova che esiste una rivoluzione che mantiene in vita gli artisti e con loro l’Arte, e che siamo giunti a una prospettiva completamente vergine di scoperte. È l’Arte di Arcangel per l’Arte del futuro quello che furono per Cristoforo da Bologna le grotte di Altamira (ma scoperte nel 1879 lui non poteva conoscerle)?

Ecco un’altra cosa di cui non avevo ancora parlato: la fila di foto e video della prima stanza in realtà inizia col disegno! Sono due opere di dimensioni identiche alle altre e all’interno della sottile cornice un passpartout isola due file verticali di cinque disegni ciascuna. Se il disegno era la preparazione dell’opera (non solo bozzetti, ma anche nel caso degli affreschi del trecento un abbozzo iniziale sulla parete che verrà in seguito dipinta). Ogni disegno riproduce lo stesso percorso di una triplice linea che fa due curve strette e poi si allunga verso destra. Il tutto tracciato a matita, per venti volte. Ma Arcangel le traccia mimando la mano di un pittore, che potrebbe essere anche Cristoforo da Bologna, con una stampante obsoleta che appunto traccia con una matita il disegno dettato da un computer. Torna la distanza del digitale: è sempre Arcangel a tracciare la linea, ma sullo schermo del computer che in seguito trasmetterà alla stampante. Sono venti triple linee uguali, impossibili anche a una mano esperta. Arcangel ha trovato il “negativo” della mano di Cristoforo da Bologna. Se per un pittore il disegno è contatto, anzi il primo contatto (tra idea e opera), per Arcangel il disegno, perdendo scopo iniziale e obbiettivo finale, resta connessione – ecco perché la linea si triplica e le tre linee si seguono l’un l’altra, ecco perché iniziano dal vuoto del foglio e finiscono nel vuoto del foglio (sono connessione del vuoto? Sono connessione nel vuoto?), ecco perché sinuosamente curvano, animandosi freddamente, continuandosi nel vuoto, ecco perché sono moltiplicate per dieci in un quadro, identiche, simulando quasi una volontà di connessione, ed ecco perché moltiplicandosi in due quadri speculari di venti disegni simula uno schema di intelligenza (nostra o artificiale; nostra e artificiale). Questo schema però potrebbe essere più materiale che soggettivo, e quindi percepire la realtà stessa e il suo apparire come uno schema – se la scienza ordina l’apparire dei fatti dell’universo, allora l’apparire dei fatti umani, sociali, personali e politici, potrebbero essere una sottoparte di quei fatti universali scientifici e quindi essere essi stessi ordinabili in uno schema (nell’idea di un chip? Potrebbero essere contenuti nelle connessioni di un chip più evoluto, in un chip del futuro, le cui connessioni sarebbero qui, in questi due quadri, esemplificate concettualmente, non rivelate, ma avvertite).

Ecco allora che per tutte le opere che seguono questi due primi quadri, ogni soggetto si tramanda nello schema che potenzialmente si traccia attraverso esso per connettersi ad altri “brani” di uno schema comune che potremmo trovare nelle altre opere.

La mostra  Current mood (Umore di oggi), smontata il 2 luglio 2016, perché non racconta e non mostra la storia di una santa, ma piuttosto il contrario, come in un negativo, un non-racconto che deve essere connesso e riconnesso più volte, in altre mostre, in altro modo, per mettere alla prova questo potenziale schema che sta nella Storia.

Gli affreschi meravigliosi di Cristoforo da Bologna sono incompleti, come spesso capita ad opere murarie di questa epoca. Ciò che rimane, a volte una parte di un riquadro, è colmo della bellezza originaria e crea meraviglia nello spettatore. È come dire che una parte è il tutto. È illusione? Ogni opera d’Arte vive di una ricostruzione. Per Arcangel l’opera è perfettamente replicabile, e nel caso una parte si rovinasse, essa non può più esistere, se non nelle sua interezza, di prima, seconda, terza copia. Però mi pare che Arcangel metta in luce anche il modo in cui esiste l’unicità della sua opera, legata al mezzo che al momento utilizza per trasmettere l’immagine allo spettatore. I mezzi sono di ora, e non di domani; le stesse immagini potranno forse utilizzare altri mezzi in futuro per raggiungere l’osservatore, ma a quel punto cambieranno sensibilmente il senso del loro schema, come un dialetto rispetto ad un altro dialetto in una lingua.

Ogni opera diventa quindi un oggetto e come tale, esposto nel luogo neutro di una galleria, pone il problema della propria riconoscibilità una volta esportato all’esterno, dove fotografia e video sono la costante. Il quesito posto dall’oggetto-opera è: a un primo momento di mimetismo seguirà un secondo momento di riconoscimento e di svelamento? Queste opere hanno la forza di differenziarsi dall’interno di un sistema (e non per supremazia esterna come era per Cristoforo e i suoi affreschi nella Basilica di San Giacomo Maggiore a Bologna). Allo stesso modo si comportano i suoi lavori in internet. Quindi si ritorna alla galleria, in un interno, asettico sì, ma trasformato, poiché inizialmente rispondeva a criteri abitativi o commerciali come qualsiasi stabile. Questo cosa vuol dire? Che gli ambienti della galleria non sono creati per una galleria, e che la loro conformazione ha uno schema di linguaggio che è quello di un dato tempo storico. Questo Dna dello spazio interno, tridimensionale, Arcangel lo misura (lo sonda), lo mostra attraverso il suono.

Nelle due sale principali sono disposti verso il centro dell’ambiente una serie di diffusori orizzontali impilati, messi su dei supporti o appesi; si trovano all’altezza del visitatore o più in alto. Ricordano in piccolo i diffusori da discoteca. Ma i suoni percepiti, gli stessi sincronizzati nei due ambienti, sono in realtà dei disturbi sonori, che salgono e scendono, lentamente, incrementando e poi riducendosi. Arcangel ha creato questi disturbi sonori digitali utilizzando in “negativo” l’attenuatore sonoro che per esempio viene utilizzato in radio, che abbassa automaticamente la musica quando si parla. In questo caso ha utilizzato come riferimento il “rumore bianco”. Questo caos si situa all’orizzonte auditivo, percettivo, dello spazio che lo riverbera come fuori da sé, nell’orecchio dell’ascoltatore che in realtà ha la funzione primaria di osservatore. Questo rumore di disturbo getta un campo comune d’azione alle immagini eterogenee scelte, un contesto negativo che le lega sì, ma a distanza. Per cui il rapporto tra immagine e immagine, tra immagini e spazi interni, tra spazi interni e spazio esterno, deve essere ricalibrato.

Questa è l’ultima questione che ci chiede Cory Arcangel: ricalibrare attentamente la nostra realtà, la nostra contemporaneità, perché è lì che viviamo e non altrove. Ci chiede di ricalibrare questi nuovi riferimenti trovati nel mondo digitale con i precedenti riferimenti dell’Arte analogica. In questa ricalibrazione, che ci tiene davvero in piedi sul baratro del Presente, consiste la messa a fuoco di una scoperta.

Sono convinto che questo intero ciclo di opere, tutte del 2016 (che riprendono a volte opere passate ma sempre in modo sensibilmente diverso), sia da cogliere come una sequenza (divisa in due parti per l’esattezza in due stanze distinte, divise dall’opera solitaria del gatto Hank), un racconto di parti che hanno la loro unicità nell’essere parte di uno schema, nell’occupare una parte precisa di uno schema.

Questa orizzontalità mi ha ricordato i quadri di Barnett Newman, americanissimo minimalista, arrivando a riconoscere nei quadri e nei video un’apertura delle sue fasce verticali e nel vuoto che le separa ma che le unisce, che le trasferisce l’una verso l’altra, l’una nell’altra, i campi di colore degli sfondi.

Si comincia con il disegno manuale ma meccanico di una stampante che traccia una linea triplicata di grafite nel bianco del foglio. Si passa alle tre fasce bianche (messe a sinistra, dalla parte dei disegni) di una tuta Adidas scannerizzata che lascia a destra il blu monocromatico sempre della tuta, quasi completamente unitario se non per qualche piega del tessuto contro il vetro, il tutto, ora, qui, schiacciato verso lo spettatore. Qui si passa all’indizio (inizio) di una terza dimensione (appena sporta indietro dalla superficie). È il digitale che richiama l’immagine, una realtà che può registrare. Kanye West si sporge, con una gamba già a terra, da un’automobile, con lo sportello aperto. La figura umana si offre all’osservatore e la ripetitività digitale la sceglie per noi essendo strumento di ciò che è famoso. Cory Arcangel, in questo caso, prende una foto di copertina della rivista “GQ”, e il solo intervento che opera è di ritaglio, cosicché la gamba sinistra di Kanye West, tagliata al ginocchio (ancora all’interno del veicolo), sembra provenire dal monocromo blu, a sinistra, della tuta Adidas, e l’altra gamba, tagliata in basso alla caviglia, poggia per terra ma non si vede; quindi la figura resta sospesa tra due diversi riferimenti, tanto più che lui sporge la testa dal veicolo e guarda qualcosa a destra verso l’immagine seguente, ma nel vuoto che le separa, mentre sta al telefono, e quindi connesso con altro ancora, in una connessione che idealmente va verso l’alto, verso il vuoto materiale dove si trova il satellite che riflette la comunicazione.

L’immagine seguente riprende una moto da corsa ferma a un incrocio con il guidatore immobile in attesa nascosto dal taxi. L’immagine è di un BlackBerry, degli anni novanta, quindi leggermente sgranata e fuori fuoco per la rapidità del momento in cui è stata “scattata”. L’ambiente si allarga e contorna l’individuo in modo incerto. La figura umana principale, il guidatore della moto, è nascosto, quindi l’attore principale in questa fotografia è proprio il mezzo meccanico, prodotto dall’uomo, reso esistente dall’uomo, e dal digitale riconosciuto come vero campo di indagine. Cosicché l’immagine successiva, un video di due prospettive in sequenza ripetuta, mostra l’interno di un’automobile, il cruscotto, il piano dove c’è il contachilometri, indizio della meccanicità prestazionale dell’oggetto, e in un’altra ripresa la carenatura dell’automobile, l’inevitabile attenzione all’unione di aerodinamica e estetica in un compromesso ineliminabile per il creatore umano. L’osservatore vede ripresi questi particolari del veicolo cittadino-sportivo girati in verticale, e questo straniamento sugli assi ortogonali di riferimento non limita per nulla il riconoscimento del soggetto ritratto, tanto esso fa parte della nostra odierna consuetudine. Qui si mostra il potere che il digitale ha su noi umani, che lo abbiamo creato. Nel senso che noi creiamo il digitale, lo schema matematico che lo sorregge, il sistema digitale rende possibile l’oggetto costruito attraverso esso (o addirittura in esso), e noi ne siamo così dipendenti da non poterlo non riconoscere come nostro nel mentre esso ci riconosce come propri.

Eccoci alla seguente foto molto sgranata, nella quale si distinguono chiaramente i pixel, che sgretolano l’informazione del soggetto ritratto mentre pure lo ricostruiscono (il soggetto qui è ambivalente, l’identità del soggetto rappresenta meglio l’identità del pixel che smonta e forma al contempo un’immagine). Il volto truccato di Marilyn Manson è reso diretto nella sua truce maschera, truce messa in scena che è realtà biografica e esigenza di mercato (altra ambivalenza). L’identità di oggi, ci dice Cory Arcangel, è dominata dal digitale e per questo spogliata e rivestita da una maschera artificiale, dove, però, la biografia si costruisce. Il suo nome unisce Marilyn Monroe e Charles Manson (capo di una setta che poi indusse a un suicidio di massa), e Arcangel sceglie come titolo dell’opera proprio Manson, portando a considerare nell’identità di oggi il suo desiderare un’identità psicopatica. Il comportamento contemporaneo di una mente che rifiuta ciò che in realtà accetta, il tutto esposto al vuoto digitale del Presente, simula così bene il fondamente della struttura zero e uno su cui si fonda l’esistenza di qualsiasi computer, la sua programmazione.

Ed eccoci giunti nello spazio vero, nel nostro reale contemporaneo, in cui siamo immersi. Tre distinte stampe digitali che riproducono l’intero spettro visibile in un dato spazio. Qui, differentemente dalle opere precedenti di Arcangel in cui lo spettro si completava nell’intero della superficie di un quadro, in questo caso non si moltiplica ma continua in tre quadri orizzontalmente e verticalmente. Ma a uno sguardo più attento è l’orizzontalità a continuare di opera in opera, essendo digitalmente stessa e altra, mentre la verticalità continua ma non si replica poiché lo spettro che dal blu passa al rosso, al giallo e al verde copre da sinistra a destra l’alto delle tre opere. Se l’orizzontalità è il mondo per la mente umana, essa non muta, e se la verticalità è l’essere o l’individuo (Newman) per la mente umana essa trascorre come un’uguaglianza; essa rimane se stessa (la mente) e il mondo non cambia. Siamo nella geometria del digitale. Eppure una scansione persiste. L’oggetto del digitale è condizionato nel tempo. Il tempo ritrova la mente dell’uomo ed ecco il brindisi dell’ultima fotografia di questa parete. Un bicchiere di vino bianco, fotografato senza stelo, solo la coppa, intonso, senza difetti di soggetto o di mezzo trasmissivo. Il bicchiere è tagliato in verticale a tre quarti a destra, cosicché dà l’idea che il trittico del campo digitale della mente sia già l’attesa del brindisi, dell’individuo che saluta la sua esistenza prossima e condizionata dalla realtà digitale. Quel vino bianco, quieto e cristallino, scompare nell’individuo che compare in una dialettica digitale.

La coppia iniziale di disegni digitali a matita traduce digitalmente Adamo ed Eva, in un’uguaglianza speculare, pur nella distinzione. Il trittico dello spettro traduce digitalmente il mondo nella mente; e la struttura continua della mente riaccede come tale, digitalmente, al tempo e alle sue conseguenze, in una rappresentazione che riguarda ancora l’uomo e il suo essere nel digitale.

Ecco un’altra coppia di opere, monitors su cui vengono visualizzati due dekstops. Quindi due computer, quindi due individualità, in relazione digitale. Li legano due riquadri dove vengono mostrati due particolari dello stesso gioco Nintendo. Nel primo schermo in un riquadro in alto c’è un aereo da guerra, un Mig 29 sovietico, dal cui retro si muovono, pixellate e scattose, due fiamme di propulsione. Il Mig è fermo nel riquadro, nel dekstop. Nell’altro schermo in basso si trova lo stesso cielo, ma sgombro, con le sue nuvole che si muovono a scatti lentamente di pixel in pixel. Una guerra è appena avvenuta o sta per accadere, accadrà o non avverrà ancora, l’inevitabile guerra. Le nuvole scorrono nel riquadro ma questo le tiene ferme sulla fotografia dell’erba in lunghi filamenti dello sfondo del dekstop. L’aereo vola immobile su un paesaggio di montagne di picchi innevati che si perdono in profondità, sfondo del dekstop del prima schermo. Il dekstop è la superficie dietro alla quale c’è una profondità di informazioni insondabile se non spostandosi in essa. Questa profondità, la sua vastità la sua struttura è speculare della soggettività dell’individuo che possiede il computer. Due dekstop appartengono a due computers, e hanno due profondità che richiamano due soggettività. Ora qui Arcangel mette in loop questi due spazi digitali, lega in un’unica superficie (come se l’uno fosse il continuamento dell’altro, come se fossero due parti legate di una medesima identità) due dekstop separati, come due soggettività hanno una medesima condizione, come due individui distinti appartengono alla stessa umanità. Arcangel crea così, da quella superficie comune, una stessa profondità più grande di quella individuale, una profondità umana, ma non la mostra, la fa presentire, ne rende percepibile l’abisso (è il Presente?), ed è un’esperienza diretta, fisica, non più supposta e mentale, poiché è digitale, e un campo digitale mostra realmente la superficie “variegata”, materiale, di un abisso che non può, quello sì, essere svelato o raccontato, ma che c’è, dietro una superficie digitale, che mostra (e traccia e lavora sul) il limite che divide individuo e umano. L’individuo si relaziona con il suo limite e lo elabora in una guerra immobile, che è un concetto imprendibile poiché abita due individui contemporaneamente. La concezione, ci fa capire Cory Arcangel, è sia gestita in noi che perduta (irrecuperabile) negli altri. Si delinea così la fisionomia di un’identità nostra, ineliminabilmente prossima al digitale, fisica e digitale insieme.

Ed ecco un’altra coppia di opere, quella centrale della parete. Una foto a sinistra e uno schermo a destra che mostra un’immagine digitale derivata dallo spettro dei colori ma impostata diversamente e intitolata arcobaleno. A sinistra un volto di donna pixellato che rivolge la sua attenzione a destra, accostandosi al fianco dell’opera (cornice sottile, bianca e invisibile). Sembra accostarsi al vuoto centrale che lega le due opere. L’opera di destra (tipica per Arcangel, ma non disposta in questo modo) utilizza i tre colori primari isolando un cerchio blu contornato di giallo in un campo rosso (il giallo accanto al blu crea il verde, accanto al rosso fa apparire l’arancione). Il cerchio, in alto, speculare della testa, scompare per un quarto oltre il bordo sinistro dello schermo. L’arcobaleno che crea Arcangel parla di frequenze, alte per il blu, basse per il rosso. Le frequenze alte contenute nelle frequenze basse, speculari al contrario della mente nel mondo (il cerchio blu sta proprio all’altezza del cervello della donna a sinistra). Le basse frequenze alimentano il cervello che genera un linguaggio, lo si vede in un abbozzo di tre lettere stampatello che compaiono in basso in una spazio bianco sotto la figura femminile in basso allo schermo. Nella parte bassa dello schermo di destra metà del cerchio è riflessa in un’ondulazione (creata da un programma in voga negli anni novanta) che simula in maniera credibile dell’acqua e che Arcangel vuole sia quella di un lago, acqua immobile mossa da onde che si trasmettono in uno spazio circoscritto e circolare. E così come la mente o il cervello è speculare della sua creazione, ossia il linguaggio, come se fosse esattamente un’altra forma della stessa materia, così il cerchio blu e le sue alte frequenze si specchiano in un’altra circolarità, il lago, che le contiene e le articola. Le energie ad alte frequenze (blu) dell’universo sono digitalmente circoscritte dalle basse energie o frequenze (rosso) della materia umana. Il digitale dà questa forza di ribaltare l’equilibrio naturale dell’uomo circoscritto dall’universo dando accesso a una simulazione, digitalmente reale, dell’agire indipendente dell’universale, dell’universo. La donna a destra è ricettrice di questo ribaltamento, e opera (costretta?) una sorta di ricodificazione del linguaggio. Si crea quindi una sinergia al centro, nel vuoto tra le due opere, tra corporeo (o idea del corporeo: foto) e digitale raddoppiato (per l’immagine astratta rappresentata da un computer e sdoppiata ancora, sempre, da un computer), video con immagine ferma e la stessa immagine in movimento, e sembra apparire una geometria del linguaggio, della mente con il suo arcobaleno, in un loop sfuggente che mette in contrasto la mente e il corpo.

Si pone il problema della nascita, se digitalmente è solo la mente a nascere e trascina con sé il corpo. I corpi allora sarebbero l’equivalente di orsetti gommosi multicolori e commestibili, accumulati l’uno sull’altro come un paesaggio. Questo è il soggetto della penultima opera di questa parete, e l’immagine fotografica è sgranatissima e i pixels molto evidenti. Il soggetto e l’immagine stessa in questa doppia presenza si destrutturano, da una parte come cosa poco credibile, inverosimile e tragica, dall’altra come condizione inevitabile e come residuo della mente (i corpi).

L’ultima opera ritrae l’attore di Harry Potter che fuma tranquillo mentre cammina per strada portando con sé, legati alla sua vita con dei moschettoni, una miriade di cani di varie razze che lo contorna e che lo isola. È un video, ma l’immagine è immobile e ondulata in un lago come l’altra precedente. Potrebbe essere la rappresentazione ironica e tragica, perché irrimediabile, della mente che trascina intorno a sé i propri corpi, impassibile, spensierata, sovrappensiero e isolata dal resto, nel vuoto digitale in cui vive. Questa è la condizione digitale: una mente trascina più corpi con sé, che sono propri perché sono di altri. Una nuova fisicità più vasta soppianta la precedente, la controlla senza fatica, la cui statuaria superficie può essere percorsa (digitalmente), muovendosi e camminando, seguendo una struttura, come su un’acqua che nasconde sotto di sé quell’abisso, che possiamo ora in qualche modo misurare, anche se solo dalla superficie. Ecco il riflesso dell’acqua del lago digitale, noi siamo i cani che camminano, riuniti dai passi di quelle gambe riflesse che tagliate del bordo basso dello schermo all’altezza delle ginocchia. I lacci, il resto del corpo centrale non si vedono riflessi. Nel riflesso è la nostra condizione, coinvolti in prossimità di un’azione digitale che ci raccoglie intorno a sé.

Cerco di capire dove ci troviamo ora nella seconda sala. Due pareti occupate anche qui da una sequenza di opere. Se l’inizio è a sinistra, vicino all’entrata c’è l’ultima foto di David Ghetta. Credo si possa dividere la sequenza in due tronconi di quattro quadri l’uno. Non è difficile distinguerli, ogni parete contiene quattro opere. Cominciamo dall’inizio, dalla prima.

Domina il bianco e nero. La prima opera è la stampa di una scannerizzazione di pantaloni Adidas neri con tre fasce bianche, decentrate verso la destra dell’opera ma lasciando ancora del nero fino al bordo. L’assenza di colori mi fa pensare che in questo caso, differentemente da prima, si dà inizio non a una ricerca di profondità digitale, ma, unendo il bianco e nero, i due estremi che assorbono o legano tutti i colori dello spettro, si cerchi qualcosa che emerga dall’assorbimento individuale del rapporto di superficie e abisso digitale, già attuato nella lunga sequenza della prima stanza. Di questa concretezza, ne emerge prima (nella seconda opera) un logo reale, seppure quasi incomprensibile a chi non lo conosca. Su un campo completamente bianco che riempie lo schermo compare in alto, quasi fosse la firma gestuale di un writer, Lord & Taylor, il nome di una compagnia di abbigliamento di alta gamma presente a Manhattan. Le fasce bianche della prima opera richiamano il fondo bianco della seconda; il fondo monocromatico nero è ripreso nella scritta, calligrafica e veloce. Anche qui, nella seconda opera la scritta viene riflessa in basso in un effetto ondulatorio che simula l’acqua (sempre di un lago), e scompare del tutto il suo senso. Questo riferimento all’abbigliamento dà la cifra che coinvolge e unisce il “discorso” di tutte e quattro le opere di questa parete. La concretezza concettuale si trasforma in un problema pratico, inizialmente di riconoscimento (l’utilizzo specifico del linguaggio per un logo). Attrazione verso un bisogno: indossare qualcosa; distinguendo il messaggio nascosto dietro la comprensibilità. Quindi si tratta di orientarsi e trasformare le lettere nel logo che sono, percepirne il messaggio fisico, e orientarsi nuovamente nello spazio reale per compiere il nostro bisogno secondario più importante: dopo aver capito la nostra identità in prossimità del digitale, ora dobbiamo “vestirci”, ossia coprirci sfruttando quest’occasione.

Nella terza opera in alto dello schermo si vedono su un fondo completamente bianco due ciabatte da mare o da piscina (c’è chi le usa per girare in città in modo informale). Compare uno slogan, diviso in due parole (scritte in bianco), una su ogni fascetta della ciabatta, da una parte “FUCK” dall’altra “NEGATIVITY”, due parole che prese singolarmente descrivono volgarità e pessimismo, ma insieme si annullano a vicenda in un desiderio positivo. Direi meglio che non si annullano a vicenda, ma si “incrementano” a vicenda trasformandosi in positività. L’ondulazione in basso ne rende quasi impossibile la lettura. Esse stanno lì una accanto all’altra e portano il loro messaggio, ma indossate, nell’alterno movimento delle gambe, il messaggio sarà diviso, eppure, una volta colte le due parole, sarà ancora più, dinamicamente, esaltato, come se il movimento trasportasse dando forza allo slogan. Mi pare però, che Arcangel avendo scelto di mostrarle una accanto all’altra, come oggetti, separati dalla presenza umana, abbia anche voluto creare un effetto di ambiguità con “fuck” che funziona si come insulto, ma in modo indiretto del linguaggio, mentre il significato vero e proprio è “scopare”, e quindi si ha “scopare la negatività”. Allora si passa dall’oggetto inanimato e dal suo ospite, a un gioco di relazione tra individui, di relazione sessuale. Arcangel vuole, credo, porre l’attenzione su la doppiezza ambigua (tra positivo e negativo; bianco/nero) di un’azione sessuale, che in ogni caso è un apice intimo, ma nella quale è difficile distinguere l’elemento produttivo dall’elemento detrattivo. Ovvero se nell’atto sessuale sia possibile distinguere la creazione dalla distruzione, spesso nascosti in modo inviolabile dietro la soggettività dei due individui, e ancor più dietro la “soggettività” dell’unione di due individui. Quindi nel rapporto con la negatività, nell’idea figurata di un rapporto con la negatività, all’apice necessario di un’intimità, di un contatto concreto, cosa si otterrebbe?, l’incremento o l’annullamento della negatività. Arcangel descrive qui il caos legato al movimento di relazione, in una società in cui l’individuo, per orientarsi, deve creare loghi, e per orientarsi tra gli altri deve cercare di orientare gli altri, coprendosi non solo di vestiti ma di messaggi, slogan per gli altri (e poi per sé) stampati su questi vestiti.

Ecco l’ultima opera, una fotografia. Sul solito sfondo bianco compare il colore blu dei pantaloni di una tuta nel cliché di una ragazza, una modella, in posa, una gamba dritta a destra alla fine di questa sequenza, e l’altra gamba a formare un angolo come a indicare tutta la sequenza appena percorsa. Sulla gamba dritta come a sbarrare il percorso fatto fin qui, come a concluderlo, appare una scritta nera contornata di bianco sul blu. C’è scritto “Love pink” ossia “amo il rosa”. Qui Arcangel con amara ironia dà il colpo definitivo all’orientamento totalmente falsato in reale disorientamento, rendendo palpabile il desiderio di rosa su un pantalone, concepito, venduto e comprato che è di colore blu. Il paradosso potrebbe arrivare a far comprendere la scritta disumanizzandola, cioè attribuendola al colore blu, come se il colore blu non essendo rosa potesse in effetti desiderare con coerenza ciò che non è, ossia il rosa. Chi ha concepito i pantaloni, in un’ottica commerciale e di guadagno, di sfruttamento di massa, ha certamente potuto prevedere anche il paradossale desiderio del blu di essere rosa, trasferendolo al cliente, alla persona sociale, che tragicamente non desidera più di essere se stesso (o scoprire se stesso), ma di somigliare, o diventare, o essere qualcun altro o addirittura qualcos’altro. Arcangel qui sostiene con queste quattro opere che il digitale è la nostra forma sociale che noi viviamo abitualmente, e ineliminabile in questo Presente evoluto tecnologicamente, e con la quale dobbiamo convivere, ma non come forma esterna, altra, bensì come fatto modificante che dall’esterno conquista la nostra interiorità.

Eccoci quindi alla seconda parete dell’ultima stanza, la fine della mostra e di tutta la sua sequenza. Si tratta di vedere cosa rimane della relazione, e quale è il contenuto attivo nell’amore.

Le quattro opere sono strettamente collegate le une alle altre come dei veri e propri ponti con un inizio e una fine. Le due opere iniziali sono in stretta relazione, due stampe digitali del tipo Raimbow. Seppur praticamente opposte formano una sola opera. La prima mostra una larga zona blu intenso (fa apparire azzurro il pantalone della tuta che chiude la sequenza precedente) che da sinistra si spinge fin oltre tre quarti della superficie del quadro. Lì, oltre una linea gialla (che cangia a contatto con gli altri colori), una barra di rosso completa l’opera. La seconda opera, in un campo rosso, situa in alto il disco blu (sempre contornato di giallo che cangia) verso destra a scomparire per un quinto oltre il bordo della cornice. Le due opere sono in contrasto, una verticale, l’altra centrica, una con maggioranza di blu, l’altra con maggioranza di rosso, solo che ecco come cambia il linguaggio della composizione dei colori se le percepiamo insieme: inizia da sinistra con un campo blu, poi, separato da una linea di giallo cangiante, si trova un campo rosso che passa nella seconda opera, come se fosse la stessa superficie (incurante o più forte del salto del vuoto della divisione tra le due opere), e lì in alto spinto ancora oltre il bordo destro il cerchio blu isolato dall’anello fino di giallo cangiante. L’anello si interrompe e tocca per un tratto la cornice, e oltre il vuoto che separa la seconda opera dalla terza, a quell’esatta altezza parte l’avambraccio di lei che offre la mano alla stretta di lui al centro della stampa fortemente pixellata, il cui braccio esce dall’inquadratura poco sopra il polso angolato più orizzontalmente. Lo sfondo è incerto, potrebbe sembrare un cielo con uno strato di nuvole in basso, anche se certamente sembrerà, così sgranato di pixels, quello che non è. Si intuisce la posizione di lei (è una impostazione sociale che qui ci descrive attentamente Cory Arcangel), ben eretta, il braccio non molto distante dal corpo, il portamento frontale la mette in mostra, si affida all’uomo che le tiene goffamente soltanto le dita come si stringe una maniglia; il braccio più rozzo e orizzontale pone il corpo di lui distante, quasi innaturalmente dalle mani e da lei. Eppure è ovvio che i due in questo modo, sincronizzati, diversamente accordati, camminano, procedono insieme. Ma di loro rimane soltanto questo aggancio che li descrive. La donna proviene con il blu dall’idiosincrasia dell’azzurro che vuole essere rosa, che ben descrive l’assetto di una società, dominata da una comunicazione esaltata che si autoregola (tanto è vero che il braccio di lei, se accostassimo la seconda e la terza opera, esce esattamente dalla porzione di blu che non è cerchiata dal giallo e che si appoggia alla cornice, tagliato (sezionato?), così come è l’avambraccio di lei.

Il blu era, nella sequenza della prima stanza, la mente, il cervello in funzione, associato al e nel digitale, mentre ora, il digitale essendo parte dominante del sistema sociale, fa sì che non per contrasto ma per continuità quello schema digitale sovrapponibile al funzionamento del cervello (legato allo schema del funzionamento di un computer) ora si espanda socialmente, ed è come se digitalmente noi vivessimo nella realtà fisica nella parte dello schema di un cervello o di un computer. Ecco allora a destra del braccio maschile il poster di David Ghetta tagliato in verticale (lui in posizione perfettamente frontale guarda dritto verso l’osservatore) dalla cornice facendo del vuoto tra le opere uno spazio ibrido che lo unisce a quel pezzo di braccio maschile. Del suo nome in alto a stampatello molto ampio rimane solo “Ghetta” e di quello che è stato il più grande Dj del mondo è rimasta una parola che ricorda troppo “ghetto” che ben descrive la vita relazionale globale, che si svolge sull’abisso digitale del Presente. Il digitale condiziona l’assetto dell’umanità e la rende asservita a una forza che è sempre uguale a se stessa e che trasforma in digitale tutte le diversità della cultura umana (anche il tempi, i tempi della Storia nel Presente), non li cancella ma li divora, riunendoli su una sola scacchiera, possiamo dire che il digitale hackerizza l’umanità, e funziona come un virus. E riesce a farlo poiché alla meccanica di un meccanismo ha aggiunto l’indipendenza di un’azione, che, autocreata, divora il tempo. Ecco allora l’altra scritta, più piccola, in uno stampatello corsivo, umanizzato, scritto a mano, col punto esclamativo, sopra la spalla destra del Dj (la scritta è la sola parte del soggetto, in campo rosso, speculare del blu dall’altra parte della sequenza, che tocca l’estremo destro dell’opera; il bianco della scritta, l’estremo della barretta che compone la “G” va nel bianco della sottile cornice) Closing Party!, esemplificazione della società digitale come comunità relazionale, chiusa su sé, e che una volta svelata nel suo tautologico funzionamento di frammentazione, pur nell’unità che alla fine descrive, non può che essere una festa che finisce in un’ultima festa. Ma questa festa che finisce in un’ultima festa forse, digitalmente, non può finire, perché sarà in loop. Cosicché il Dj David Ghetta, tagliato per tre quarti, mi sembra diventare, ovviamente rassomigliante proprio a Cory Arcangel, che come un’ombra (digitale) mette se stesso, e la sua opera con lui, dentro a questo “party” in un “ghetto”, dentro a questo schema digitale.

E noi lo incontriamo e lo riusciamo a riconoscere perché noi eravamo già lì.

 

 

 

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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