Gianni Berengo Gardin. Vera Fotografia # 2. Intervista ad Alessandra Mammì e Alessandra Mauro

Gianni Berengo Gardin

Gianni Berengo Gardin. Vera Fotografia è la grande mostra in corso sino al 28 agosto al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Abbiamo intervistato le due curatrici, Alessandra Mammì e Alessandra Mauro, iniziando da una prima curiosità:

Come è nata questa co-curatela?

A. Mammì – Nasce direttamente da Berengo. Io ero andata alla conferenza stampa dove fu annunciata la mostra delle grandi navi a Palazzo Ducale a Venezia. Ho intuito che era una bella provocazione e che non era una mostra neutra. Ho chiesto così di poter intervistare Berengo, ma prima per un motivo e poi per un altro l’intervista venne posticipata fino ad arrivare ad agosto, quando la mostra fu censurata. Così è cominciato il mio rapporto con Berengo e con Alessandra (Mauro, N. d. R.).

Come avete lavorato sul mare magnum della produzione di Gianni Berengo Gardin? Come vi siete approcciate per la selezione e l’allestimento?

A. Mauro – Come sempre una mostra vive anche dello spazio, quindi in realtà tutto nasce da esso. Inizialmente lo spazio pensato era quello al piano superiore e avevamo pensato anche ad un allestimento legato allo studio di Berengo Gardin, come se si potesse starci dentro. Quando poi invece la mostra venne destinata allo spazio dove è effettivamente esposta ovviamente abbiamo rimodulato le nostre idee.

È stato subito chiaro che si doveva trattare di un racconto “a nastro” che potesse correre lungo tutte le sale, con degli elementi di dimensione più grande che potessero essere catalizzanti. Su questo doppio registro abbiamo lavorato. Entrambe poi eravamo in accordo nel non voler stampare delle fotografie nuove, e nel voler dare forma alla mostra con il formato tipico di Gianni Berengo Gardin che è il 30 x 40.

A. Mammì – Avendo avuto più a che fare con l’arte contemporanea e con installazioni che interagiscono con lo spazio diversamente dalla fotografia inizialmente mi sono trovata un po’ spiazzata ma le immagini di Gianni Berengo Gardin sono talmente catalizzanti da avere l’attrazione di un dipinto e allo stesso tempo avere la potenza narrativa di un film e ciò crea potenza e movimento.

Qual è la differenza tra curare una mostra di fotografia e una mostra d’arte contemporanea per quanto riguarda lo spazio?

A. Mammì – Non è una questione solo di spazio. C’è un elemento narrativo e un rapporto con il visitatore nella mostra fotografica che è diverso, sicuramente più abbandonino. C’è un momento di riconoscibilità immediato e meno simbolico, il visitatore di una mostra come questa è visitatore/spettatore, non c’è questo rapporto di distanza che sussiste invece in una mostra di arte contemporanea.

A. Mauro – Giuliana Bruno, storica dell’arte, fa un paragone tra Cinema e mostre dicendo che il visitatore di una mostra è piuttosto un passeggero. Penso che sia una definizione che calza a pennello per le mostre fotografiche. Noi siamo dei passeggeri che guardano le immagini dal finestrino. In questo caso è un paesaggio, l’Italia, che conosciamo e riconosciamo e di cui ne siamo parte.

E per quanto riguarda le sezioni in cui è divisa la mostra?

A. Mauro – Le abbiamo create vedendo le fotografie e poi è chiaro che non si può non cominciare da Venezia e finire con Venezia. Quindi tra la Venezia degli anni ’50 e quella di adesso tutto il resto sta nel mezzo.

Due anni fa è stata esposta un’altra grande retrospettiva di Gianni Berengo Gardin. Che differenze di materiale e contenutistiche ci sono in questa mostra a distanza di due anni?

A. Mauro – Mi sembra di ricordare che i formati fossero diversi, per quanto riguarda il materiale alcune fotografie erano le stesse altre diverse. Noi abbiamo fatto un lavoro più filologico con l’introduzione di alcuni grandi formati come suggestioni interpretative. Per questa mostra le stampe sono originali, ristampare significava annullare le particolarità di ogni singola fotografia. Quando si va a leggere una fotografia, non si legge solo l’immagine, ma essa è anche documento fisico della stampa.

Perché il titolo Vera Fotografia”?

A. Mauro – Nella pratica è il timbro che Gianni Berengo Gardin pone dietro le sue immagini come simbolo di una fotografia non alterata, per noi è stato il pretesto anche di un gioco come una sorta di metafora per cui la fotografia è vera quando ci racconta la realtà.

A. Mammì – In quel “ vero” ci sono molti aspetti: il fatto che non allestisca un set, non ci sono attori, lui non provoca l’immagine, al massimo si apposta per carpirla. C’è una scuola intera dentro quella parola “vera”. Non vuole essere un giudizio nei confronti di un mondo che cambia ma una sua verità.

Però l’assolutezza della parola “vera” rimanda comunque ad un contesto. “Vera” rispetto a cosa?

A. Mammì – Con il post-moderno nasce il diritto all’artificio e Gianni Berengo Gardin non è post-moderno, lui è un moderno con l’etica del moderno e per questo appartiene al ‘900. Il richiamo poi alla modernità è una questione trasversale alle arti, basta pensare alle ultime due Biennali dove c’è stato un ritorno a quelle che erano le tematiche della modernità: i valori sociali e i valori etici.

A. Mauro – C’è una lunghissima tradizione di fotografia di documentazione che fa capo a questa filosofia come ad esempio Lewis Hine che diceva che la fotografia è vera quando racconta le cose come sono. È sempre comunque stato un gioco tra ciò che vedo e ciò che penso.

Come, secondo voi le indagini sociali e del “vero” di Gianni Berengo Gardin si sono evolute con il cambiamento della società e del paesaggio visivo?

A. Mauro – Ha approfondito il suo metodo di lavoro e soprattutto non ha smesso di voler conoscere. Se si vuole considerare tutto il suo lavoro non ci sono dei veri cambiamenti, ma la sua forza sta proprio nella sua coerenza di documentazione e di sguardo che è sempre molto costante, con un approccio quasi scientifico.

Nel progetto della mostra avete inserito anche il commento di molte personalità della cultura: scrittori, architetti, registi, fotografi…; da dove nasce questa idea?

 A. Mammì – A dire il vero è stato anche un escamotage per convincere Gianni Berengo Gardin a stampare delle fotografie a dimensione più grande.

Con Alessandra Mauro abbiamo cominciato a pensare a dei nomi che spaziassero il più possibile e ci ha sorpreso molto l’entusiasmo che abbiamo riscontrato in tutti coloro che abbiamo interpellato.

A. Mauro – Alcuni hanno accompagnato il lavoro di Berengo in tutto il suo tempo e perciò chiedere il loro apporto è stato più diretto e spontaneo, però poi abbiamo voluto inserire nella cerchia anche chi lavora con il mondo dell’immagine come ad esempio Kounellis o Alfredo Pirri

Tra gli interpellati c’è anche Alice Pasquini, giovane street artist che è intervenuta con una sua opera, riproducendo sul muro dello spazio Varco al Pigneto una fotografia di Gianni Berengo Gardin. Come è stata vissuta questa riproduzione da Gardin?

A. Mauro – Benissimo. Alice fa parte di quelle persone che abbiamo interpellato per far capire come anche le nuove generazioni si relazionano all’immagine e a questo tipo di patrimonio iconografico. Da lei poi è partita l’idea della riproduzione street art e a Gianni è piaciuta molto.

Negli ultimi decenni il confine dei ruoli all’interno del mondo dell’arte si è reso molto labile. L’artista si fa imprenditore di se stesso e molte volte è artista/curatore…

A. Mammì – Il curatore deve mantenere una certa distanza, avere uno sguardo storico, deve indirizzare l’artista e deve portare alla luce cose che l’artista vorrebbe nascondere. Sicuramente la figura del curatore è una figura più vicina all’artista rispetto a quello che una volta era il critico.

A. Mauro – Quando succede che un fotografo voglia essere curatore di se stesso i risultati non sono molto interessanti a meno che non sia inserito dentro all’atto creativo. Se io vado a vedere delle mostre scelte da Martin Parr riconosco la sua ricerca, il suo gioco. Giusto ieri guardavo un catalogo che mi ha mandato Fontcuberta di una Biennale che ha curato a Montreal e sono tutti esperimenti sulla realtà, su ciò che essa può sembrare, esattamente come si trova anche nel suo lavoro fotografico. Ciò che quindi diventa interessare è vedere come un autore cataloga e sceglie delle immagini funzionali sempre ad un suo processo lavorativo.

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Laureata in Lettere e Filosofia indirizzo giornalistico con una tesi sulla fotografia psichiatrica, con citazione di tale ricerca nella versione anastatica di “Morire di classe” (Einaudi, 1969), fotoreportage di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che nel 2009 Duemilauno-Agenzia Sociale ha ristampato, è giornalista pubblicista dal 2008. Dal 2010 lavora presso Palombi Editori in mansioni commerciali e di distribuzione. Ha scritto per numerose riviste d'arte e curato mostre seguendo autori che praticano il linguaggio fotografico e progetti di critica fotografica. Tale attività prosegue attualmente.

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